25 anni fa usciva The Bends dei Radiohead, una boccata d’ossigeno nella pressa del brit-pop

Dopo la teenage angst di Pablo Honey la band di Thom Yorke scelse ruvidità e atmosfere, gettando le basi per OK Computer


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È opinione comune l’incapacità di collocare The Bends dei Radiohead tra quegli scaffali discografici che dominavano i tormentatissimi e innovativi anni ’90. Una decade che è stata il ’68 degli attuali trentenni e quarantenni, con tante piccole rivoluzioni (il grunge dei Nirvana), nostalgici revival (il brit-pop degli Oasis) ed esplosioni melodiche cucite addosso a generi che fino a qualche anno prima non concedevano sinuosità (il nu metal dei Deftones).

Ecco, proprio dal brit-pop potremmo partire per aiutarci a individuare quel posto speciale che The Bends dei Radiohead merita. Pablo Honey, due anni prima, aveva condannato i soci di Thom Yorke al ruolo di cantori dei freak, portavoce di una generazione di sfigati con l’outfit stazzonato che sognavano il cuore della bella ragazza del liceo. Lo fecero con Creep, bellissima ma maledetta, che appunto diede loro un’etichetta che non volevano.

Intanto nel Regno Unito, già padre/madre dei Beatles, dei Queen, dei Led Zeppelin e dei Sex Pistols, scoppiavano fenomeni come Oasis e Blur e per questo il brit-pop divenne il momento più alto della scena alternativa mondiale. Quella dei Radiohead era un po’ la stessa responsabilità dei primi Tool: i primi dovevano farsi spazio nel post-beat, i secondi trovare prestigio in un mondo dominato dal rock alternativo.

Che fare dopo Pablo Honey e prima di Ok Computer (1997)? Ora comprendiamo quel Grignani che con La Fabbrica Di Plastica tirò un calcio a Destinazione Paradiso quando il danno era già fatto, ma non vogliamo essere troppo severi. Pablo Honey sarà sempre un ottimo album e You sarà sempre un’ottima opening track.

Severa, piuttosto, è stata la critica all’uscita di The Bends quel 13 marzo 1995, 25 anni fa, con la Parlophone. C’era chi parlava di declino epocale, chi invece individuava una band svogliata che in modo maldestro tentava di ridimensionarsi, ma oggi sappiamo che non fu così. The Bends dei Radiohead è il disco in cui Yorke e la sua squadra scelsero il loro pianeta preferito, fecero breccia sul muro di cinta innalzato dal brit-pop e diventarono la lettera maiuscola della scena alternativa dei ’90. Sì, lo fecero.

Thom Yorke è sempre stato l’anti rockstar: un principe che però preferiva il suo stato di brutto anatroccolo, bello nel cuore e complicato nello spirito. Era ora che questo strano individuo dicesse la sua insieme ai suoi compagni: The Bends dei Radiohead era l’amplesso dietro l’immagine di copertina, l’esplosione di piacere sonoro che la band attendeva di innescare.

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Se le danze vennero aperte dalla stralunata Planet Telex e da quella strana e claustrofobica title-track, High And Dry e Fake Plastic Trees erano la svolta eterea, commovente e ipnotica che tradiva quella voglia di psichedelia e atmosfera dei Radiohead.

La spavalderia del brit-pop non era imbattibile. Bones, My Iron Lung, Just (ripetiamolo insieme: Just!) erano ruvidità allo stato puro, veri e propri episodi di rabbia che la voce di Yorke non traduceva nelle strida lancinanti della teenage angst ma armonizzava con la sinusoide delle sue scelte melodiche.

Scelte che diventavano nenie mortali o danze strazianti negli audaci 6/8 di (Nice Dream) e Sulk e sospiri ancestrali in Street Spirit (Fade Out). Questo, fondamentalmente, era The Bends dei Radiohead: una collocazione e una risposta, qualcosa che non doveva per forza rispondere a un’esigenza ma che nasceva come necessità.

Esauriti gli ormoni in subbuglio di Pablo Honey, esaurito il disimpegno percussivo di Phil Selway e individuate le capacità di O’Brien e Greenwood, The Bends dei Radiohead era la rivincita che faceva fatica a riprendere territorio.

Una mosca bianca, questo disco, che da quel momento restituiva a Thom Yorke e soci la dignità che sarebbe continuata con OK Computer. C’era poi quella brutta storia secondo la quale Yorke imitava Bono degli U2 nel canto, ma ora si dice che Matt Bellamy dei Muse imiti Thom Yorke e faccia il verso a Jeff Buckley.

Tutto bellissimo e meraviglioso, in un mondo in cui sei qualcuno se sei come qualcuno. The Bends dei Radiohead dimostrò che quei 5 pulcini tormentati erano come nessuno.