Hammamet, Craxi, il tramonto di un leader e il crepuscolo della Repubblica

A vent’anni dalla morte, Gianni Amelio firma un ritratto degli ultimi mesi di vita dello statista. Il mimetismo di Favino lascia sbalorditi. Meno il film, che manca di un’idea forte che annodi la pietas per l’uomo a un giudizio lucido sull’epoca

Hammamet

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C’è e non c’è la politica. E c’è e non c’è Craxi. Questa è l’impressione vedendo Hammamet, dedicato da Gianni Amelio allo storico leader del Psi di cui, tra pochissimi giorni, il 19 gennaio, ricorrerà il ventennale della morte. Ed allora è naturale che l’uscita del film divenga un’occasione di riflessione collettiva, di bilanci, forse purtroppo anche di regolamenti di conti intorno alla figura più scomoda del crepuscolo della Prima Repubblica.

Avrebbe potuto dare, Hammamet, la stura a un momento di profondo ripensamento, non fosse che, appunto, a partire dall’autodenuncia di Amelio, “Qualcuno mi aiuti a dire che il mio Hammamet non è un film su Craxi”, l’operi slitti continuamente dalla cronaca – e d’accordo, l’assenza dell’attualità era anche auspicabile – verso una dimensione allusiva e metaforica parecchio sfuggente e, stringi stringi, deludente.

Tutto questo poi, paradossalmente, accade in completa controtendenza con la mimesi ossessiva del protagonista Pierfrancesco Favino, autore di una prova che ha qualcosa di stregonesco, che si trasforma in un Bettino Craxi claudicante più vero del vero. Ma attorno a lui, a parte la location che è l’autentica villa del leader, messa a disposizione dalla discretissima vedova Anna, tutto stinge nell’indistinto. A cominciare dalla scelta di non nominare mai Craxi, chiamato il “presidente” o al massimo “il caso C.”. Quando lui parla di De Mita e lo imita, il suo nome non viene fatto, e l’unica figura pubblica che abbia perlomeno il suo autentico volto è quella di Berlusconi, visto di sfuggita in televisione.

Di riconoscibile in Hammamet c’è la poetica di Amelio. Da un lato tematicamente, perché questa è un’altra storia di padri e figli. Dall’altro stilisticamente, a partire dall’autocitazione in una delle inquadrature di apertura del film, una lunga carrellata all’indietro di un gruppo di ragazzini tunisini che corrono, che rimanda alla sequenza inziale di Colpire Al Cuore, in cui il protagonista Trintignant, anche lui correndo, raccontava una barzelletta al figlio interpretato da un attore di nome Fausto Rossi.

Gianni Amelio e Pierfrancesco Favino all’incontro con la stampa. Foto Yasmine Nicolosi @yasminenyc

E, volutamente, Amelio chiama Fausto (Luca Filippi, inadeguato), il personaggio d’invenzione di Hammamet, figlio di un altro padre tragicamente scomparso, Vincenzo (Giuseppe Cederna), tesoriere del partito che nel prologo durante il trionfalistico congresso del Psi nel 1989 all’ex Ansaldo, con tanto di famigerata piramide di Panseca, affronta quasi a brutto muso il leader appena rieletto segretario con percentuali “bulgare”, facendogli capire che il castello di carte sta per crollare e la magistratura sta arrivando.

Fausto, perciò, va in Tunisia per consegnare una dura missiva del padre a Craxi, che quel ragazzo sceglie di accogliere, forse per una forma di senso di colpa verso il genitore, e per usarlo come interlocutore cui raccontare la sua verità. Con una videocamera con formato a 4:3 Fausto filma il leader socialista mentre espone le sue tesi accusatorie su Tangentopoli, in parti che finiscono per funzionare come un “virgolettato”, con idee dello statista e non del film, che ne prende timidamente le distanze. Intorno a loro figure quasi sempre senza nome ma mai inventate: la figlia Anita (da Garibaldi, ed è Stefania Craxi, la interpreta Livia Rossi), un’amante (Claudia Gerini) che va in Tunisia per incontrarlo, un democristiano (Renato Carpentieri) sintesi di diversi politici Dc, anche se a trovare Craxi, realmente, andò Francesco Cossiga.

Hammamet però resta indeciso a metà del guado. Aveva certamente ragione qualche tempo fa Filippo Ceccarelli in Invano, libro inaggirabile per capire cos’è stata la politica nella prima e seconda Repubblica quando, nelle pagine dedicate all’ultima fase della vita di Craxi (che per alcuni è latitanza, per altri esilio), sosteneva che “per come è finita, a distanza di anni, ci si aspetterebbe  una valutazione più distaccata e insieme più vicina ai sentimenti che rendono uguali gli uomini”.

Favino, autore di una prova travolgente, dà vita a un Craxi più vero del vero. Foto Yasmine Nicolosi @yasminenyc

Ed è questa l’ambizione di Amelio, fare “un film sull’impossibilità di perdonare, sull’amore e l’odio che non si separano, sulla memoria che ti salva solo quando si perde, perché il suo peso è insostenibile”. Ma è improbabile sottrarsi integralmente alla prospettiva storica, perché ogni gesto del Craxi di Favino, fosse solo per l’incredibile esattezza fisica della riproduzione, riaccende gli interrogativi squisitamente politici della vicenda. Che possiede una sua esemplarità visto che, riprendiamo Ceccarelli, questa è “una storia che c’entra poco con il potere, però dice e insegna moltissimo su quale china quest’ultimo possa trascinare chi l’ha perseguito come il principale scopo della sua esistenza”.

Animale politico quant’altri mai, insomma, Craxi non può essere ridotto a una fotografia dei suoi sentimenti e (mal)umori, che sono sempre stati impastati di vita di partito e ambizione leaderistica. Allora nella sceneggiatura di Amelio e Alberto Taraglio si sente la mancanza di una seria riflessione e di un solido retroterra di ricerca storica su quel fondamentale passaggio d’anni. Quindi ha ragione Paolo Pillitteri, ex politico e cognato di Craxi, quando lamenta l’assenza di Milano in Hammamet. Per Milano possiamo intendere tutto il racconto del Psi, dei rapporti di potere, del collasso giudiziario del sistema. E uno dei rari pezzi di storia viene, quasi ironicamente, raccontata dal nipotino dello statista, che giocando coi soldatini mette in scena la crisi diplomatica di Sigonella.

Non basta certamente a dare spessore la lunga sequenza di finali, in cui s’intrecciano confusamente aspirazioni felliniane – Craxi in sedia a rotelle che diventa il pupazzo sul palcoscenico d’una satira da Bagaglino –, ulteriori rapporti familiari, stavolta tra il leader e il suo di padre (Omero Antonutti, nella sua ultima interpretazione) e malattia mentale. Con il che Hammamet si chiude a suon di simbolismi velleitari che possono significare: l’impazzimento del paese, il corpo piagato del leader come corpo malato della Repubblica, nazioni che vanno in pezzi come un vetro rotto. Davvero troppo, a fronte di un racconto che non offre assolutamente gli appigli per conclusioni così altisonanti e definitive.