40 anni dopo London Calling dei Clash il punk è morto, evviva il punk

Il sodalizio con il reggae era compiuto: il disco gettò le basi dell'ondata ska-punk degli anni '90


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London Calling dei Clash ha compiuto i suoi primi 40 anni. Era il 14 dicembre 1979 e due anni prima i Sex Pistols avevano già dato e terminato con Never Mind The Bollocks. Il binomio peace & love non aveva funzionato, e quando amore e fratellanza avevano fallito erano insorti i punk per dirla tutta: fa tutto schifo, fan**lo a tutti.

I Clash non erano esattamente di questo parere, anche se il loro repertorio già comprendeva la risposta perentoria Hate & War a tutta l’ondata d’amore che aveva colorato dieci anni di storia dell’uomo per combattere contro la guerra e l’insofferenza. La band di Joe Strummer, Paul Simonon, Mick Jones e Topper Headon aveva pronto un disco, il terzo della carriera, dopo l’esordio con l’album omonimo (1977) e Give ‘Em Enough Rope (1978). Bisognava fare in fretta, perché il punk stava già cambiando i connotati. New wave e darkwave, l’embrione post-punk che i conterranei Cure di Robert Smith stavano già portando in giro per offrire al mondo nuove architetture sonore, odoravano ancora di ribellione ma avevano le braccia protese verso l’avanguardia crepuscolare.

Quel nuovo fronte depresso e disincantato rischiava di oscurare tutto, per questo i Clash, che di anarcoide avevano anche i vasi sanguigni, aprirono le porte del punk al reggae. Tutto lo ska-punk che ha infiammato gli anni ’90 deve tantissimo a London Calling, perché come ogni pezzo di storia che si rispetti il capolavoro dei Clash fu il disco di rottura.

Per i 40 anni dalla “chiamata di Londra” è stata allestita una mostra gratuita al London Museum, e tra i cimeli esposti c’è anche il basso di Paul Simonon, ancora distrutto come accadde nel celebre scatto di copertina di Pennie Smith. Simonon, in quel momento, era esasperato dalle disposizioni del Palladium di New York che impedivano al pubblico di stare in piedi a seguire il concerto. Il suo basso divenne un’ascia, Paul lo brandì e lo distrusse sul palco.

Alla title track dall’incedere militaresco, quasi una marcia di protesta contro un’attualità che la band combatteva, sono state dedicate cover, pagine di giornale e su di essa sono stati fatti dibattiti. London Calling era la canzone che chiudeva gli anni ’70 del punk britannico e tirava le orecchie al punk stesso. Le chitarre picchiate a tempo con la batteria incontravano un Paul Simonon più libero di esprimersi, fino a quella Guns Of Brixton, uno ska sepolcrale che mascherava un lamento generazionale.

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London Calling dei Clash è un vero e proprio manifesto punk che si tiene lontano dalle chitarre sempre distorte, dagli scream di guerra anarchica e dall’oltraggio: Strummer e soci, incalzati da quel folle distruttore che era il produttore Guy Stevens, si erano rinchiusi nei Vanilla Studios e ci avevano dato dentro.

Il risultato fu un disco che metteva insieme la trasgressione punk e il rockabilly (Brand New Cadillac, The Card Cheat), surf rock (Spanish Bombs) pop (Lost In The Supermarket, Lover’s Rock) britpop contaminato con lo ska (Wrong ‘Em Boyo), reggae (Revolution Rock). Il collante tra le varie influenze, inevitabilmente, era il punk.

Quella dei Clash fu una scelta nata dalla necessità della libera espressione artistica. I tempi dei punk rocker maledetti era finito, tutto era già stato scritto e Bob Marley lo aveva dimostrato con Punky Reggae Party, pubblicata nel 1977 per ringraziare la squadra di Joe Strummer dopo la loro cover di Police And Thieves di Junion Murvin inserita nel disco d’esordio. Il matrimonio tra punk e reggae era andato a buon fine, seppur in una prima istanza Marley avesse dimostrato di non apprezzare il punk.

Lo racconta Don Letts, regista del video di London Calling intervistato da Repubblica proprio in occasione dei 40 anni del disco. Letts racconta che Marley era fortemente influenzato dai tabloid inglesi che davano un’idea sbagliata del punk, e proprio nel 1977 la voce di No Woman No Cry viveva a Londra. Letts era andato a trovarlo e il suo outfit non piacque a Bob: “Sembri uno schifoso punk”, gli disse. Il regista provò a dissentire e Marley lo cacciò di casa. Tre mesi dopo pubblicò Punky Reggae Party.

Era la nuova era e i Clash regalarono al mondo il loro passepartout che raccontava ciò che era stato e ciò che era (Spanish Bombs ammoniva la guerra civile spagnola), preparandoci a ciò che sarebbe stato. Un disco di tale portata non avrebbe avuto eguali, sebbene gli episodi successivi sarebbero stati comunque interessanti.

La morte del punk arrivò inevitabilmente dopo London Calling dei Clash, un disco remoto solamente sulle coordinate cronologiche ma tremendamente proiettato al “per sempre”, un’opera che ha reso il punk immortale.