Il Sindaco Del Rione Sanità, nel corpo a corpo con Eduardo, Martone resta ostaggio del dramma di De Filippo

Dopo la Mostra di Venezia arriva per pochi giorni al cinema il film tratto dal dramma del 1960 su un boss che gestisce una giustizia a modo suo. Nel passaggio dalla pagina scritta al cinema manca però un’idea di messinscena davvero autonoma

Il Sindaco Del Rione Sanità

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Il Sindaco Del Rione Sanità parte come un film di genere: il boss Antonio Barracano è nella sua villa sul Vesuvio, e da quel punto di vista privilegiato la sterminata area metropolitana di Napoli con le sue luci notturne assomiglia a quella di una qualunque megalopoli. Un’immagine che potrebbe sicuramente appartenere a un thriller criminale.

L’inizio fa pensare quindi che Martone, per questa trasposizione cinematografica dell’omonimo dramma di Eduardo De Filippo già portato a teatro insieme al collettivo teatrale del Nest, abbia consapevolmente scelto di misurarsi con il genere crime, molto lontano dall’ispirazione di un regista cerebrale come lui.

Il confronto col filone criminale, soprattutto nella sua variante gomorresca, sembrava ancora più inevitabile viste le scelte che sono alla base della rilettura del testo eduardiano, che Martone sottopone a due mutamenti essenziali: lo spostamento dell’azione all’oggi – il dramma è del 1960 – e la scelta di un protagonista 40enne, Francesco Di Leva, mentre invece il boss di De Filippo, da lui originariamente interpretato, era un uomo intorno alla settantina.

Però, nonostante la presenza di attori quasi tutti giovani che tanto somaticamente quanto nell’abbigliamento rimandano a un immaginario crime ormai consolidato, il film di genere rimane in gran parte sulla carta. Questo perché, a parte qualche inevitabile riaggiustamento – l’omissione del finale, la definizione di qualche personaggio – Martone segue fin troppo fedelmente le parole del testo eduardiano.

Il Sindaco Del Rione Sanità è la storia di un boss che cerca di amministrare ambiguamente una giustizia a modo suo, con l’obiettivo di limitare gli spargimenti di sangue. Ritornano i momenti salienti del dramma: l’iniziale intervento chirurgico nella villa di Barracano per salvare la vita a un ragazzo ferito in una sparatoria; lo strozzino umiliato dal boss, che gli fa contare dei soldi che non esistono; e il caso più difficile, quello del ragazzo intenzionato a uccidere il padre, un ricco panettiere che l’ha disconosciuto.

Nella riproposizione dell’originale, però, la versione di Martone finisce per sembrare teatro filmato, nel quale i pochi esterni non lasciano un’impronta significativa e la messinscena resta sigillata dentro l’unità di azione e luoghi – la villa vesuviana e la casa nel quartiere Sanità del terzo atto –, giocata sul basso continuo dei fitti dialoghi.

A parte l’intuizione dell’iniziale sguardo metropolitano, Martone non trova una chiave visiva autonoma che faccia respirare cinematograficamente il suo Sindaco – non ci si può accontentare di prevedibili inquadrature dall’alto col drone. Cerca semmai, da quel notevole regista teatrale che è, di lavorare sui corpi e la densa intimità fisica tra i personaggi. Le parole del testo poi, che pronunciate a teatro nel quartiere di San Giovanni a Teduccio trovavano un contesto nel quale attecchire e mettere radici, una volta trasposte al cinema dànno la sensazione di galleggiare in uno spazio indefinito, suonando persino stridenti e anacronistiche.

Certo, la scelta di un cast di giovani e d’un protagonista appena quarantenne eppure già stanco e disilluso fanno emergere la brutale e impietosa rapidità con cui i nostri tempi corrono e corrodono, bruciando aspettative e desideri persino in chi avrebbe l’età per immaginare un’altra esistenza possibile. Nonostante questo, però, resta l’impressione di una rilettura soprattutto di testa, cui non bastano attori decisamente in parte, Di Leva e Massimiliano Gallo su tutti, per regalare a Il Sindaco Del Rione Sanità un’autentica capacità di presa sull’attualità.