Rapina A Stoccolma, la vera storia dietro la sindrome

La rapina nella Stoccolma del ’73 che stupì il mondo per il rapporto di dipendenza affettiva degli ostaggi nei confronti dei loro rapitori

rapina a stoccolma

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Il 23 agosto 1973, Jan-Erik Olsson, 32 anni, tentò una rapina alla sede della Sveriges Kredit Bank di Stoccolma e prese in ostaggio tre donne e un uomo. Rapina A Stoccolma è la vera storia dietro la sindrome di dipendenza patologica rapito-rapitore.

Olsson chiese effettivamente la liberazione di un altro detenuto, Clark Olofsson; le autorità acconsentirono a tutte le richieste del sequestratore, compresa un’automobile per la fuga, tranne quella di allontanarsi con gli ostaggi. La prigionia e la convivenza forzata degli ostaggi con il rapinatore durarono oltre 130 ore in uno spazio di soli 16 metri.

I nomi dei protagonisti, del fatto realmente accaduto, sono differenti come tanti dei fatti raccontati nel film. Il regista , Robert Budreau, calca la mano sull’immaginazione, ma racconta nella sostanza l’intera vicenda, centrando il tema e dipingendo in poche ambientazioni un affresco della Stoccolma degli anni ’70.

Ethan Hawke, nei panni di Lars Nystrom,  è un rapinatore dal cuore tenero in Rapina A Stoccolma che racconta, con molte libertà, i fatti che hanno ispirato la teoria della dipendenza  affettiva mostrata da alcune vittime di violenza fisica o psicologica.

Noomi Rapace è Bianca Lind, una cassiera coraggiosa. E’ lei ad avere nervi abbastanza saldi da chiamare immediatamente la polizia nei secondi successivi all’entrata nella banca dell’uomo armato in banca. Capitanerà da subito il gruppo di ostaggi e sarà la più coraggiosa e responsabile. Nel film avrà la lucidità (o la confusione) utile a spiegare al marito, mentre è in piedi con una mitragliatrice puntata dietro la nuca, come preparare la cena ai figli a casa vista l’impossibilità di provvedere da sola in quelle ore di prigionia.

Il più lucido tra i rapinatori è Mark Strong che interpreta il socio di Nystrom, Gunnar Sorensson, detenuto e fatto liberare sotto richiesta del sequestratore, che fino alla fine del film sembra giocare il doppio ruolo di complice e infiltrato della polizia. Mark Strong continua nella lunga sequenza di film in cui interpreta criminali o antieroi come in Shazam

Nei 92 minuti di Rapina A Stoccolma è difficile non notare che alcuni dialoghi hanno dell’incredibile e che l’affresco di alcuni caratteri, soprattutto del rapitore Nystrom, sono decisamente calcati. Su tutto, la spiegazione dell’affezione e fiducia che gli ostaggi cominciano a provare nei confronti dei loro sequestratori non è molto ricercata. Il lungometraggio di Budreau resta in ogni caso un film godibile da vedere sul grande schermo ed è tra le uscite più interessanti della settimana.

Nei fatti realmente accaduti ripresi dal film, quando gli ostaggi vennero liberati,  si preoccuparono realmente dell’incolumità dei propri carcerieri, persino abbracciandoli una volta usciti dall’edificio. Successivamente le vittime continuarono a provare emozioni nei confronti dei rapitori.

Alcuni studiosi spiegarono che gli ostaggi erano diventati emotivamente loro debitori per avergli risparmiato la vita. Dopo l’arresto gli ex ostaggi fecero effettivamente visita in carcere ai loro aguzzini. Il fatto, raccontato nel film, rappresenta forse una delle scene forse più belle di Rapina A Stoccolma.

Questo fenomeno di dipendenza affettiva, riscontrato più volte in tali occasioni, è largamente utilizzato dai media, ma ancora oggi oggetto di dibattito in campo scientifico. La rapina a Stoccolma nel 1973 fu il primo caso in cui oltre agli interrogatori della polizia, le vittime furono anche intervistate e prese in carico dagli psichiatri.

Un altro celebre caso di sindrome di stoccolma, potrebbe essere quello di Patricia Campbell Hearst, ricca e giovane ereditiera americana, rapita nel ‘74 in California dai membri del gruppo paramilitare dell’autoproclamato Esercito di Liberazione Simbionese . La giovane dopo la prigionia e il pagamento del lauto riscatto pagato dalla famiglia, decise di unirsi ai rapitori e rapinare banche insieme a loro. La Sindrome di Stoccolma citata in aula dalla difesa, non le impedì, in una prima fase, di ricevere in tribunale una severa condanna a sette anni di reclusione.