I fratelli Sisters, il western non convenzionale di Jacques Audiard, tra dramma e commedia

Da oggi in sala il primo film in lingua inglese di uno dei più personali registi francesi. Audiard firma un western che mescola toni e sfumature, per raccontare l’evoluzione di personaggi forti ed enigmatici. Perfetti Joaquin Phoenix e John C. Reilly, due fratelli killer tra ferocia e tenerezza.

I fratelli Sisters

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Che ci fosse da attendersi qualcosa di non convenzionale da I fratelli Sisters, primo western e primo film in lingua inglese del regista francese Jacques Audiard, vincitore del Leone d’argento all’ultima Mostra di Venezia, era prevedibile. Audiard ha costruito la sua fama di autore dallo stile singolare, fatto apposta per spiazzare attraverso un pugno di film che utilizzano la cornice dei generi codificati (il prison movie de Il profeta, il noir di Sulle mie labbra, il melò di Un sapore di ruggine e ossa) come chiave d’accesso alle vite di personaggi ambigui, che recano con sé un grumo di ragioni ed emozioni profonde, strenuamente trattenute. Quindi i racconti di Audiard sono costruiti in modo da affondare poco alla volta nel carattere e nei comportamenti dei protagonisti per rivelarne contraddizioni, ferite, aspirazioni. Senza mai però illudersi di fare piena luce, di trovare risposte chiare e definitive sul loro modo di essere.

Un’impostazione che traspare perfettamente dalla prima sequenza de I fratelli Sisters, che suona come una dichiarazione di poetica: una sparatoria in piena notte di cui si intuisce appena la dinamica dai lampi dei colpi di pistola, senza che però si riesca a capire chi stia sparando a chi e perché. E idealmente in questa oscurità continueranno a muoversi per gran parte del film i due protagonisti, Charlie ed Eli Sisters (Joaquin Phoneix e John C. Reilly), due bounty killer al libro paga di un potente e misterioso Commodoro (Rutger Hauer).

Siamo nell’Oregon del 1851, all’inizio della grande corsa all’Oro: la nuova missione dei fratelli è eliminare il chimico Warm (Riz Ahmed), facendogli prima rivelare un segreto cui il Commodoro tiene moltissimo, per ottenere il quale ha anche convolto un investigatore privato, Morris (Jake Gyllenhaal) che deve scovare lo scienziato per poi consegnarlo ai terribili Sisters.

Così il film si trasforma nella storia di due distinte coppie che si rispecchiano l’una nell’altra. Da un lato il visionario Warm – per il quale l’arricchimento non mira all’avidità, ma è invece una tappa verso una società comunitaria alla Fourier – e il suo carceriere Wilson, lettore di Thoreau conquistato dai sogni utopici del chimico. Dall’altro i fratelli Sisters, apparentemente due individui semplici, che invece attraverso le continue schermaglie reciproche e il confronto con gli altri due personaggi finiscono per accedere alla parte più oscura di sé stessi. Ed è, la loro, un’interrogazione che contiene tanto momenti drammatici quanto bizzarri e picareschi, a conferma dell’approccio sorprendente di Audiard, che riadatta il romanzo omonimo di Patrick deWitt in modo personale e imprevedibile.

Joaquin Phoenix e John C. Reilly sul set insieme al regista Jacques Audiard.

Il risultato è un western indefinibile, né revisionista né crepuscolare, né post- né anti-. Audiard non vuole smantellare il genere dall’interno, anzi lo rispetta, e opta per uno stile meno nervoso del solito, con i grandi spazi delle inquadrature ariose dei classici – girando in Spagna e Romania – e una dettagliata ricostruzione d’epoca, grazie ai costumi di Milena Canonero e le scenografie di Michel Barthélémy (bellissime quelle della “metropoli” San Francisco).

Piuttosto, il regista “usa” il western piegandolo ai suoi bisogni e approfitta dell’attendibilità storica della cornice per dare credibilità alla vicenda dei suoi tortuosi protagonisti, Charlie ed Eli. I quali hanno sì una missione precisa da compiere, ma per il resto vagano nella nebbia perenne dell’inconsapevolezza circa le loro autentiche motivazioni interiori. Grava su di loro il peso di un rapporto con un padre violento e opaco: tanto quello reale, morto in circostanze non chiare, quanto quello putativo, il Commodoro, un convitato di pietra che praticamente non si vede né si sente parlare mai.

Così i “fratelli sorelle”, indeterminati a tutto fin dal loro paradossale cognome, si aggirano nel west come orfani, appigliandosi solo alla loro professionalità di bounty killer e al loro contorto legame di sangue. Tutto il resto testimonia la loro sorda sofferenza: il primo beve parecchio e ha scatti d’ira incontrollabili; l’altro si sdilinquisce in sentimentalismi – l’affetto per il proprio cavallo, l’adorazione per una sciarpa donatagli da una donna chissà quando – che gli servono per immaginarsi migliore di quanto non sia (John C. Reilly, che ha voluto fortemente questo film anche producendolo, è bravissimo).

Il resto del tempo i fratelli lo spendono nelle loro schermaglie dialogiche, accapigliandosi sull’uso di un vocabolario insospettatamente forbito (“Parlano e discutono come fossero due piccoli conti, sembrano usciti da un romanzo di Diderot”, ha dichiarato Audiard). Il che crea uno straniante effetto comico, ma è anche la spia della loro immaturità travestita di belle parole e capace di esplodere in immotivati gesti violenti.

Più che una caccia all’uomo, I fratelli Sisters è un itinerario alla ricerca di sé, che per compiersi ha bisogno di guardare in faccia il proprio padre (reale o ideale) e confrontarsi con il senso della perdita (anche qui sia ideale che reale, soprattutto per Charlie). Solo a quel punto diventa possibile tornare a casa, sciogliendosi in un abbraccio che sa di perdono e accettazione, e non di sconfitta.