Dolce Roma, il mondo del cinema è un romanzo criminale (recensione)

Il regista Fabio Resinaro gioca con i generi per costruire un ritratto al vetriolo del sottobosco dei cinematografari romani. Un affresco grottesco e divertente, però molto meno arrischiato di quanto voglia far sembrare. Luca Barbareschi, comunque, ne esce da assoluto mattatore.

Dolce Roma

INTERAZIONI: 520

Un po’ Boris, un po’ Grande bellezza, e tanto romanzo criminale: questo in sintesi è Dolce Roma, che parte dall’espediente del film nel film e racconta il mondo dei cinematografari come fossero malviventi pronti a tutto. Il protagonista è Andrea Serrano (Lorenzo Richelmy): lavora all’obitorio, ma sogna di diventare uno scrittore, e per sentirsi tale s’è pure autopubblicato un libro di largo insuccesso. La grande occasione però è dietro l’angolo, e si chiama Oscar Martello (Luca Barbareschi), titanico produttore convinto che da quel romanzo sulla camorra si possa trarre un film di successo. O, più semplicemente, ha bisogno d’una storia in cui piazzare l’amante Jacaranda (Valentina Bellè), attricetta stanca di fiction tv e vogliosa di fare il grande salto.

Allora si mette in piedi il gran circo del cinema: c’è lo scafatissimo distributore (Armando De Razza) che col produttore forma una coppia tipo gatto e la volpe; il regista raccomandato (Luca Vecchi) che gira solo piani sequenza per evitare che gli taglino il film al montaggio (vuole fare una zoomata che parte dal Monte Bianco e arriva sul dettaglio del capezzolo di Jacaranda mille chilometri più in là); la prima attrice umorale e di scarso talento; lo sceneggiatore Andrea che vorrebbe far fuori il regista. Il film viene fuori bruttissimo: per salvarlo produttore e sceneggiatore architettano un piano con un (falso) rapimento eseguito dalla (vera) camorra, per fare un lancio promozionale col botto.

Barbareschi domina la scena, mettendo il suo naturale egocentrismo al servizio del memorabile Oscar: sposato a una donna ricchissima (Claudia Gerini) di cui sta dilapidando il patrimonio, ha due figlie di cui a stento ricorda i nomi, è ammalato di “fica e coca” e sceglie le sceneggiature dopo trenta pagine (di più non riuscirebbe a leggerne). Un personaggio perennemente sopra le righe, che detta ritmo e stile al film, che Fabio Resinaro, autore anche della sceneggiatura insieme a Fausto Brizzi, ha diretto ispirandosi al romanzo di Pino Corrias, Dormiremo da vecchi.

Dolce Roma è rutilante, volutamente giocato sul continuo cambio di generi, dalla commedia al grottesco, dal giallo al thriller con (tanti, troppi) colpi di scena. Esattamente come Oscar, che recita tutti i ruoli, passando dal cattivo maestro che la sa lunga – “A Roma nessuno dice quella che pensa e nessuno fa quello che dice” – al miserabile consapevole delle proprie meschinità – “Puzzo talmente tanto di m… che non riesco ad abbracciare le mie figlie quando torno a casa” –, fino al disilluso con la voce rotta dai rimpianti – “Hai mai rinunciato a qualcuno che amavi?”.

Boris è dietro l’angolo, dicevamo, ma in versione nera e cattiva. E l’aria da Grande bellezza è andata più a male, perché diversamente dai placidi altoborghesi che cadono sempre in piedi frequentati da Jep Gambardella, qui abbiamo a che fare con gente perennemente sull’orlo di una crisi di nervi (e d’astinenza) che si scommetta la vita intera a ogni puntata.

Dolce Roma è decisamente divertente, a patto di non prenderlo troppo sul serio, pensando magari di essere di fronte a una storia che mette alla berlina il mondo del cinema e le sirene traditrici della capitale marcia e corrotta. Apparentemente certi affondi vanno in questa direzione: “Il miele è dolce avvolgente, ma si rischia di rimanerne invischiati, come Roma” sentenzia la Gerini. Ma restano battute, buone a creare le giuste atmosfere in un film che sa precisamente dove vuole andare, sempre in bilico su un caos che tende caparbiamente a controllare.

Il meccanismo del film lo spiega chiaramente Andrea sin dalla prima sequenza, commentando l’azione in voice over: “A me non bastava essere il protagonista di questa storia. Io volevo essere lo scrittore”. Ed è esattamente quello che succede: tanto nella storia, di cui Andrea diventa il burattinaio, dirigendo i colpi di scena: quanto in Dolce Roma, di cui Resinaro e Brizzi, pur faticando, cercano di amalgamare svolte e cambi di tono.

Proprio per questo il grado di autoconsapevolezza del film suona eccessivo: alcune scene, come quella del bagno nel miele della Gerini, hanno l’aria di essere messe lì già sapendo che diventeranno stracult, perché girate volutamente con quello scopo. E lo stesso vale per il tono accusatorio sul mondo del cinema, che pare più compiaciuto che autenticamente dissacrante. Questo dà al film, indubbiamente brillante, un’aria piuttosto meccanica. Paradossalmente, questo film all’apparenza arrischiato e sempre sul punto di deragliare, sembra troppo calcolato e pensato a tavolino. E per questo, pur divertendosi, si finisce per non dargli credito.