Green Book, il candidato agli Oscar è un film sul razzismo infarcito di stereotipi (recensione)

Il 31 gennaio esce il premiatissimo film con Viggo Mortensen e Mahershala Ali. Che sono un autista bianco italoamericano e un raffinato musicista nero, in viaggio per una tournée nel Sud razzista degli anni Sessanta. Un film conciliante, semplicistico, irrealistico.

Green Book

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Green Book è uno dei grandi protagonisti della stagione cinematografica americana, in uscita nelle sale italiane giovedì 31 gennaio. Tratto da una storia vera, il film diretto da Peter Farrelly, per una volta senza il fratello Bobby, racconta l’amicizia che nasce tra due uomini agli antipodi: il bianco italoamericano Tony Vallelonga detto Lip (Viggo Mortensen) e il musicista nero Donald Shirley (Mahershala Ali), cui il primo fa da autista in una delicata tournée nel bianchissimo e retrogrado Sud del paese nei primi anni Sessanta.

Veridicità della vicenda di partenza, contrasto di caratteri, racconto di un’epoca di discriminazioni che si auspica appartenere al passato, riflessione conciliante sulla capacità degli uomini di andare oltre i pregiudizi: ecco in due parole i fattori che hanno decretato il successo del film in patria. Di lì il profluvio di premi: tre statuette ai Golden Globes, il PGA Award, l’importante riconoscimento del sindacato dei produttori, le cinque nomination agli Oscar 2019.

L’idea più indovinata di Green Book è legata al titolo: il “libro verde” era una pubblicazione contenente gli indirizzi delle strutture ricettive disposte ad accogliere la gente di colore. Ed è a quella guida devono affidarsi Don e Tony per non incappare in brutte sorprese. Il film, ovviamente, fa il verso al classico A spasso con Daisy. I ruoli però sono ribaltati: stavolta l’autista è il bianco proletario, e il nero è il personaggio di superiore lignaggio e cultura. Un musicista rispettato, che parla al telefono con Robert Kennedy e vive in un ricercato appartamento newyorkese.

Quello stesso uomo, però, non appena abbandona l’enclave rassicurante e altoborghese, vede franare la patina di rispettabilità ritrovandosi, nel Sud del paese, non più acclamato concertista, bollato dall’etichetta discriminatoria del colore della sua pelle. La presa di consapevolezza di Tony perciò, il vero protagonista del film, diventa la cartina di tornasole del processo cui non un individuo ma un intero paese deve sottoporsi, per riscrivere o meglio strappare le pagine dell’infamante Green Book.

Passi l’idea di partenza. Il risultato, però, è insopportabile, a partire dalla sceneggiatura firmata da Farrelly, Brian Currie e Nick Vallelonga, figlio di Tony. Proprio la presenza tra gli autori del figlio non aiuta, perché il Tony Lip di Green Book diventa un santino, e la nascita dell’amicizia di questa strana coppia è raccontata tra colpi di scena telefonati e molta ruffianeria.

Problematicità e realismo in Green Book restano sulla carta. Il milieu italoamericano di Tony è prevedibilissimo. Lo sfondo è imbastito col solito repertorio di canzoni italoamericane, che in un film di Scorsese lavorano in contrappunto con i personaggi e creano una sinistra tensione, mentre qui servono solo per dare una verniciatura d’epoca, e tendono al caramelloso, come la fotografia, luminosa, carezzevole. Col paradosso che, sebbene si racconti un’America ancora imbevuta di razzismo, lo si fa con uno stile colorato e vintage che la rende magnifica a vedersi.

Gli italoamericani passano molto tempo a tavola a mangiare e chiacchierare. Dato che Tony fa il buttafuori in un club dalle frequentazioni equivoche, qualche peccatuccio lo commetterà pure. Ma è solo un tipo intraprendente. Sul lavoro è obbligato a usare le mani, a casa è un cuore d’oro, innamoratissimo della moglie (Linda Cardellini) e sempre pronto a farsi in quattro per la famiglia.

Per questo accetta i due mesi di tournée ben pagati con Don. Tony con la gente di colore ha qualche problema, lo vediamo gettare nella spazzatura i bicchieri in cui hanno bevuto gli stagnini neri venuti ad aggiustargli il lavandino. Il problema però, ammonisce paternamente Green Book, non è lui, ma l’ambiente troppo chiuso in cui vive. Neanche ha cominciato il viaggio, infatti, e subito la sua prospettiva cambia: “Non avevo mai capito quant’è bello questo paese, me ne rendo conto adesso”, scrive ispirato alla moglie.

Il resto lo fa Don: ipersensibile, colto, musicista eccezionale – Tony dice che “è come Liberace, ma meglio”. Sulle prime Tony lo difende dai razzisti perché fa parte del lavoro. Poi si rende conto che la situazione è moralmente inaccettabile – in quanto italoamericano, di discriminazione ne sa qualcosa. Con Tony cambia anche Don, che smette di essere algido e distaccato, comincia ad apprezzare certi valori semplici della vita di cui Tony il chiacchierone è maestro. I due attori, alle prese con caratteri tagliati con l’accetta, non vanno oltre il prevedibile: Mortensen, che è ingrassato per la parte, mangiando, sudando, gesticolando e straparlando ad alta voce; Mahershala Ali sempre rigido nella sua eterna degnazione, fino ovviamente alla scena madre che ribalta tutto.

Green Book pialla qualunque complessità e fila come un treno sui binari del suo conciliante ottimismo. Processi rivoluzionari come cambiamento culturale e presa di consapevolezza sono a portata di mano. Basta saper ascoltare la voce del buon senso, che alberga soprattutto nei cuori di uomini genuini come Tony Vallelonga. E tutti insieme a tavola, con Frank Sinatra a cullarci con le canzoni di Natale. Tremendo.