The Old Man and the Gun, elogio di Robert Redford

Redford ha annunciato di volersi ritirare al cinema. Così il suo ultimo film da protagonista è costruito come un omaggio, grazie al ruolo di un rapinatore gentiluomo che è la sintesi dei personaggi della sua lunga carriera. Che ripercorriamo.

Robert Redford

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Robert Redford a 82 anni ha annunciato che The Old Man and the Gun è il suo ultimo film. Perciò il regista David Lowery l’ha costruito come un omaggio al suo luminoso protagonista e già la prima sequenza ne celebra palesemente il mito. La macchina da presa riprende di spalle un uomo che esce da una banca e sale in automobile. Solo quando aggiusta lo specchietto retrovisore vediamo lampeggiare lo sguardo di uno dei più iconici divi americani degli ultimi sessant’anni.

Il protagonista di The Old Man and the Gun, ambientato nel 1981 e tratto da una storia vera raccontata in un articolo del New Yorker, si chiama Forrest Tucker, rapinatore di banche gentiluomo ormai settuagenario con 16 evasioni all’attivo. Non sembra commettere rapine per avidità, pare più seguire una vocazione e il suo ideale di libertà. Lo capisce l’unico poliziotto che prende sul serio il suo caso, Casey Affleck. Varcata la boa dei quarant’anni, sebbene amorevole padre e marito d’una splendida famiglia, si scopre infelice e depresso. Allora comincia a inseguire Tucker: non tanto per arrestarlo, quanto per carpire il segreto della sua vita piena e in sintonia con sé stesso.

Come ogni criminale fascinoso che si rispetti, Tucker ha una donna che palpita per lui. Una vedova settantenne – la ritrovata Sissy Spacek – che capisce e accetta, nell’autunno della sua vita, il singolare uomo che il destino le para di fronte. Completa lo scenario la “banda dei vecchietti d’assalto”, come la ribattezzano i media a caccia di notizie bislacche, ossia i complici di Tucker, interpretati da Danny Glover e da Tom Waits, grande cantante-cantore di drop-out e loser che quella singolare fisionomia da lupo solitario ha portato talvolta sul grande schermo.

The Old Man and the Gun è tutto giocato sulle sfumature, sul ritmo meditativo e crepuscolare, che rimanda volutamente al cinema della New Hollywood anni Settanta, in cui la complessità di storie e personaggi era lo specchio della fiducia riservata a uno spettatore di cui si sollecitavano le istanze adulte, pur sempre costruendo spettacoli di gran classe e, talvolta, anche divistici. E nessuno in quegli anni è stato più divo di Robert Redford.

La sequenza che ricostruisce la storia delle evasioni di Tucker è sintomatica delle intenzioni del film: foto segnaletiche e scene che ritraggono Redford dalla giovanissima età fino alla maturità, una persino tratta da La caccia di Arthur Penn (1966), nel quale interpretava proprio un evaso. Negli occhi e nella mente dello spettatore al film di David Lowery finiscono così per sovrapporsi le tappe della storia cinematografica di Redford. Il personaggio di Forrest Tucker riassume i caratteri essenziali dei ruoli che ha incarnato lungo la sua fortunata carriera. C’è il gusto insopprimibile della libertà, l’apologia dei perdenti, l’amore per i grandi spazi dell’America profonda, la sicurezza data da un fascino vissuto con elegante ironia.

Robert Redford, all-american dream

Tornando indietro agli anni Sessanta e Settanta in cui si è definito il suo personaggio, Robert Redford ha incarnato un modello del maschio americano dai tratti in parte inediti. In un’epoca in cui i grandi attori della nuova generazione vestivano i panni di personaggi contraddittori e problematici – da Dustin Hoffman a Jack Nicholson – Redford era troppo smaccatamente fascinoso per potersi calare credibilmente nelle stesse psicologie contorte.

L’attore perciò ha trovato una chiave personale in cui s’è definita una mascolinità insieme classica e moderna, che conferma certi caratteri tradizionali del maschio statunitense, virilità, atletismo, coraggio, sicurezza, ma attualizzandoli e sintonizzandoli su un’epoca segnata dai movimenti per i diritti civili, il femminismo, la crisi dei valori e della politica, dall’assassinio Kennedy al Watergate. Redford riesce a calarsi nella nuova era grazie alla scelta accorta dei personaggi da interpretare e dei registi con cui lavorare – su tutti il grande e ormai sottovalutato Sydney Pollack, con cui girò sette film.

Talvolta sfrontato e manipolatorio con le donne (Questa ragazza è di tutti, Lo spavaldo), nei suoi ruoli maggiori Redford si pone sempre in una posizione paritaria con l’universo femminile – recitando accanto ad attrici di grande temperamento, Barbra Streisand, Jane Fonda, Faye Dunaway – , certo seduttivo, ma mai prevaricatorio. La sua virilità conosce anche accenti di ambiguità. Il suo primo ruolo importante, ne Lo strano mondo di Daisy Clover (1965), è quello di un attore omosessuale. E nel film che gli diede la fama definitiva, Butch Cassidy (1969), come scrissero Maurizio Porro e Giuseppe Turroni ne Il cinema vuol dire, la protagonista femminile, Katharine Ross “fa la figura del terzo incomodo in quell’amore completo e totale che sboccia tra Robert Redford e Paul Newman”.

Paul Newman, Katharine Ross e Redford in una foto di scena di “Butch Cassidy”

Redford è un ponte di collegamento tra epoche e valori, che attinge ad alcuni ideali del passato filtrandoli però attraverso la sensibilità del presente. Il suo personaggio è legato alla mitologia del west (Il cavaliere elettrico, L’uomo che sussurrava ai cavalli) e sente fortissima l’attrazione per la frontiera e la wilderness (Corvo rosso non avrai il mio scalpo). Ma è insieme un perfetto animale metropolitano, anche aggiornato e avvezzo all’uso delle tecnologie (I tre giorni del Condor, I signori della truffa).

Attore con trascorsi televisivi, una volta passato alla regia ha saputo riconoscere nella tv un elemento fondamentale nello scenario dell’America contemporanea. Nel suo primo film dietro la macchina da presa, Gente comune (1980), la protagonista è una stella del piccolo schermo, Mary Tyler Moore e sulla tv – come luogo di produzione dell’immaginario e della falsificazione – fece un film non privo di sottigliezze, Quiz Show (1994).

Con Mary Tyler Moore sul set di “Gente comune”

Volto chiave della New Hollywood, Redford sintetizza gli elementi tipici del cinema di quella stagione: il ribellismo (La caccia), l’individualismo anarchico (Corvo rosso non avrai il mio scalpo), l’elogio del loser (Il cavaliere elettrico), l’attenzione agli ultimi e il senso della giustizia che non diventa mai asservimento codino alle regole (Ucciderò Willy the Kid, Brubaker), la disillusione e la capacità di decostruire la retorica del potere (Il candidato, I tre giorni del Condor, Tutti gli uomini del presidente); il gusto dell’elegia in un cinema che, all’altezza degli anni Settanta, comincia a guardare autoriflessivamente e con nostalgia alla storia americana (Il temerario; La stangata, altra riuscita dell’indovinatissima accoppiata con Paul Newman). Il tutto sempre all’insegna di un impegno liberal, che manterrà anche nelle sue regie tarde come Leoni per agnelli (2007) e La regola del silenzio (2012).

La bellezza apollinea ha rappresentato per Robert Redford una benedizione e una condanna – cui ha risposto dandosi alla regia e dimostrando un notevole fiuto di imprenditore culturale creando il Sundance Film Festival. Il suo fascino smagliante gli ha aperto le porte della fama ma non gli ha consentito tutto sommato di ottenere un apprezzamento pieno delle sue qualità di attore. Infatti, paradossalmente, l’unico Oscar l’ha vinto per la regia di Gente comune – vale meno il riconoscimento alla carriera del 2002.

Insieme a Jane Fonda a Venezia nel 2017, per il Leone d’Oro alla carriera assegnato a entrambi

In Robert Redford s’incarna l’ideale della bellezza wasp, così oggettiva da correre il rischio di trasformarsi in oggetto. Lo coglie perfettamente Come eravamo (1973) di Sydney Pollack, in cui il protagonista Hubbell Gardiner – ruolo che inizialmente Redford voleva rifutare, perché gli sembrava troppo remissivo – è un giovane ricco, affascinante, atletico. Un uomo oggetto e non soggetto della seduzione. Infatti a conquistarlo è la volitiva protagonista ebrea e comunista interpretata dalla Streisand. Al di sotto dell’apparente fatuità, però, in Hubbell alberga il talento d’un vero scrittore, che firma racconti come “Il vero americano sorride”, che comincia con le parole: “In un certo senso egli era come la nazione nella quale viveva, aveva avuto tutto troppo facilmente”.

Con Barbra Streisand, foto di scena da “Come eravamo”

È fin troppo ovvia la tentazione di sovrapporre a quel sorriso il sorriso di Redford, predestinato al successo dal suo fascino, e insieme ingabbiato talvolta per questo nella posizione dell’oggetto del desiderio, quasi cannibalizzato da un pubblico che lo adora, mosso dall’inconfessabile intento di impossessarsi d’un brandello della sua perfezione. Idolatrato quindi, ma condannato a non essere preso sul serio fino in fondo. Il destino di Robert Redford è quello degli autentici divi.