Una questione privata, i Taviani non rendono giustizia al romanzo di Fenoglio

I fratelli Taviani traspongono un capolavoro della letteratura resistenziale. Un libro di cui è difficile restituire il sottile equilibrio tra ossessione amorosa e racconto bellico. Lo stile del film è nobile ma antiquato. E i protagonisti, Luca Marinelli a parte, non sono all’altezza.

Una questione privata, i Taviani mettono in scena Fenoglio

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Una questione privata di Paolo e Vittorio Taviani, ideato da entrambi ma diretto dal solo Paolo (per i postumi d’un incidente che ha tenuto lontano dal set il fratello), mette in scena il romanzo incompiuto sulla Resistenza di Beppe Fenoglio. Libro d’una letterarietà poco cinematografica (la trasposizione l’aveva lungamente accarezzata un “irregolare” del nostro cinema, l’ex partigiano Giulio Questi), insieme racconto scabro e fisico della guerra e radiografia sentimentale appunto privata del pudico amore del partigiano Milton (Luca Marinelli) verso la giovanissima Fulvia (Valentina Bellè).

Dalla governante della ragazza, il combattente apprende che forse lei aveva una relazione col suo più caro amico, Giorgio (Lorenzo Richelmy), anch’egli partigiano. Urge un chiarimento, ma Giorgio nel frattempo viene arrestato dai fascisti. Allora Milton cerca di catturare un nemico per uno scambio di prigionieri, e vaga tra le montagne per compiere la sua missione, in un itinerario che a Calvino ricordava l’Orlando furioso.

Con Una questione privata Fenoglio intrecciava grande storia e vicenda intima, meccanismo che gli permetteva di scardinare le retoriche monumentalizzanti della Resistenza, di cui offriva un ritratto più a misura d’uomo, che però non sminuiva mai il senso della lotta partigiana. Ma i Taviani sorvolano su aspetti rilevanti del romanzo, quali la distinzione tra le brigate partigiane – gli azzurri badogliani (in cui militava Fenoglio e i protagonisti del romanzo) e i rossi comunisti. E si concentrano invece sull’ansia febbrile d’un giovane allucinato dalla gelosia e dalle proprie pulsioni inespresse.

Paolo Taviani l’ha apertamente dichiarato, Una questione privata è la storia d’un impazzimento amoroso. Che resta un tema certo universale. Se non fosse che lo stile dei Taviani è, come in altre occasioni, ieratico, di statica maestosità, col rischio che le loro preoccupazioni espressive fatichino a porsi in dialogo con lo spettatore contemporaneo. Un film formalmente nobile ma passatista, con soluzioni di montaggio che per raccordare due scene – e il presente al passato rivissuto in flashback – mostrano didascalicamente una dopo l’altra due persone che compiono lo stesso gesto di fumare, o il suono d’una batteria jazz che si trasforma in una raffica di mitra.

E sebbene qualcosa venga restituito della fatica della vita partigiana, tra il fango e un’ottundente nebbia materiale e metaforica (Fenoglio la definisce “un’ovatta assestata, immobile”), il racconto degli orrori della guerra resta distante. Le battaglie in Una questione privata sono inquadrate in campo lungo e a camera fissa, eventi esteriori riemersi da un tempo che inevitabilmente, come spettatori, non riesce ad appartenerci. Immoti e distanti sono anche gli attori (col solo Marinelli all’altezza), che ripetono i dialoghi letterari del libro, con un effetto di rigidità che al massimo indulge al patetico.

Forse non è un problema legato soltanto alla regia. Per girare il film i Taviani son dovuti andare nella Val Maira, perché le vere Langhe, ormai tutte disposte a filari di vigneti ben ordinati, non offrivano una location adatta alla vicenda. E se non esistono più nemmeno i luoghi autentici in cui ambientarle, forse diventa davvero difficile comunicare allo spettatore l’urgenza d’una storia come questa.