Cannes 2017, giornata tra divi e maestri, con Nicole Kidman, Colin Farrell e Michael Haneke

Tre film in concorso oggi: l'austriaco Haneke, il greco Yorgos Lanthimos con la coppia di star Kidman e Colin Farrell, il "Woody Allen coreano" Hong Sang-soo. Nella Quinzaine c'è un altro film italiano, "L'intrusa" di Leonardo Di Costanzo, un racconto di camorra oltre la camorra.

Cannes 2017, i film in concorso della sesta giornata

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Ricchissimo il programma della sesta giornata di Cannes 2017, un lunedì con ben tre film in concorso, tra cui l’autore con più premi nella storia del festival, Michael Haneke, tra i maestri più influenti, anche stilisticamente, del cinema contemporaneo. Accanto a lui quello che sotto certi aspetti potrebbe essere definito un suo allievo, il greco Yorgos Lanthimos, esploso con la sua prima produzione internazionale The Lobster, che a Cannes 2017 con The Killing Of A Sacred Deer grazie anche alla coppia di divi Colin Farrell e Nicole Kidman può legittimamente aspirare a uno dei riconoscimenti maggiori. Chuide il terzetto The Day After, del sudcoreano Hong Sang-soo.

Citiamo solo di sfuggita in una programmazione davvero nutrita, la presenza nella sezione Un Certain Regard di un già vincitore della Palma d’Oro, Laurent Cantet, con L’atelier, storia di un ragazzo che segue un corso di scrittura entrando in conflitto con la docente, una nota romanziera; e, fuori concorso, l’omaggio a uno dei maestri del cinema francese, André Téchiné, con Nos Années Folles, incentrato sulla storia vera di un soldato che per sottrarsi alla Prima guerra mondiale si traveste da donna, diventando una celebrità nella Parigi degli anni ’20. Fino a quando, giunta l’amnistia, non cerca di ritornare uomo. Oggi, ne parliamo diffusamente, c’è anche spazio per il cinema italiano, con L’intrusa di Leonardo Di Costanzo nella Quinzaine des Realisateurs. Ecco nel dettaglio i film in concorso e fuori concorso della sesta giornata di Cannes 2017.

The Killing Of A Sacred Deer di Yorgos Lanthimos, in concorso

The Killing Of A Sacred Deer è il secondo film in lingua inglese di Yorgos Lanthimos dopo The Lobster, che vede impegnata la stessa coppia di sceneggiatori – oltre al regista, Efthymis Filippou; i due col precedente lavoro avevano ottenuto una nomination all’Oscar per il miglior script originale – e ritrova anche il protagonista, Colin Farrell. Il quale stavolta è affiancato da Nicole Kidman e Alicia Silverstone in una vicenda in cui impersona il ruolo di un chirurgo costretto a fare un sacrificio impensabile che modifica irrimediabilmente la sua vita. Nel frattempo un adolescente che aveva cominciato a trattare paternamente inizia a dare segni di squilibrio.

Yorgos Lanthimos è autore di un cinema entomologico, sconfortante, che mette in scena dei racconti che assomigliano a degli esperimenti antropologici o scientifici, nei quali i personaggi si muovono in spazi circoscritti e separati dalla realtà, sottoposti allo sguardo glaciale ma al fondo malinconico del regista. In questo senso il suo film più esemplare resta Kynodontas, storia di un padre che, per proteggerli, confina in casa i propri figli e li fa crescere separati dal mondo, in uno stato di reclusione che avrà conseguenze, ovviamente, devastanti.

Con quel film Lanthimos ottenne una nomination all’Oscar come miglior film straniero e, alla sua prima partecipazione a Cannes nel 2009, il premio della sezione Un Certain Regard, cui va aggiunto il premio della Giuria nel 2015 per The Lobster. Elementi che, almeno sulla carta, lo rendono uno dei candidati più accreditati a un premio maggiore a questo Cannes 2017. Intanto, è stata annunciata un’uscita americana per The Killing Of A Sacred Deer, il 3 novembre, mentre in Italia la Lucky Red non ha ancora comunicato una data certa.

Happy End di Michael Haneke, in concorso

Giunto alla settima partecipazione al festival di Cannes, il 75enne Michael Haneke è l’unico autore riuscito a vincere due volte la Palma d’oro, nel 2009 con Il nastro bianco e nel 2012 con Amour, cui vanno aggiunti altri riconoscimenti, dal Gran premio della Giuria per La pianista (2001) al premio per la regia a Caché (2005). Insomma, l’appartato regista austriaco vanta un palmarès inimitabile, che ha premiato uno stile rigoroso e altero che ha fatto scuola, tra autori i quali, pur non direttamente suoi allievi, guardano al suo magistero per trovare una via dell’impassibilità alla rappresentazione del dolore e della violenza, proprio come Yorgos Lanthimos o il connazionale Ulrich Seidl.

Perciò è un evento l’uscita, cinque anni dopo il premiatissimo Amour (vincitore anche dell’Oscar), di un nuovo film di Michael Haneke, che in Happy End ritrova il protagonista del film precedente, l’icona Jean-Luis Trintignant, affiancato da Isabelle Huppert (al suo quarto film con il regista), e Mathieu Kassovitz. La storia è incentrata su una famiglia borghese che vive agiatamente nel nord della Francia, mentre a poche miglia dalla loro magione, nella città-soglia Calais, si consuma il dramma dei migranti stipati in condizioni miserabili nei campi profughi.

Le prime reazioni dei giornalisti che hanno potuto assistere all’anteprima per la stampa sono entusiastiche. Il critico del Guardian Peter Bradshaw assegna a Happy End il massimo dei voti, parlando di “un incubo satirico, desolato, brillante, implacabile come una luce alogena, una soap opera ispirata dal demonio”. La cecità di questo nucleo di gente benestante che non vuole vedere la sofferenza che si consuma a breve distanza da loro si somma alla cecità verso la famiglia disfunzionale che essi stessi rappresentano. Gli uomini cercano in ogni modo di non guardare dentro di sé e le proprie meschinerie, ma allo stesso tempo sono ossessionati dal voyerismo, dal registrare e rivedere ogni cosa attraverso i dispositivi tecnologici – videocamere di sorveglianza, la piazza virtuale dei social media – che invece di aiutare a capire e capirsi esasperano la fuga da se stessi e rendono sempre più sfumata la distanza tra realtà e finzione. Tra questi dispositivi in un certo senso c’è lo stesso cinema di Haneke – il che sottilmente pone delle domande anche sulla sua attendibilità -, che censisce implacabilmente comportamenti e miserie del quotidiano, sui quali distende uno sguardo spassionato e insieme densamente morale. Happy End ricapitola certi temi cari ad Haneke e si preannuncia come un composto racconto dell’orrore che affiora sotto la superficie delle nostre colpevoli abitudini.

Geu-Hu (The Day After) di Hong Sang-soo, in concorso

Del regista sudcoreano Hong Sang-soo, habitué del festival al quale partecipa per l’ottava volta – dove nel 2010 ha vinto la sezione Un certain regard con Hahaha – è stato già proiettato un film a Cannes 2017, Clair’s camera, fuori concorso, che è solo uno dei suoi tre film usciti nel 2017 a conferma della sua fama di autore prolifico. Gli altri sono On the beach at Night Alone, e Geu-Hu (The Day After), il film che partecipa oggi alla competizione maggiore per la Palma d’oro.

Il nuovo film ancora una volta è una radiografia di relazioni umane e affettive, tema prediletto di questo cronista del quotidiano, attento ai sentimenti, alle enigmatiche regole dell’attrazione che rimescolano le carte nelle vite di gente comune. In The Day After, infatti, al centro della vicenda c’è una ragazza al suo primo giorno di lavoro in una piccola casa editrice. Il suo capo è un uomo sposato che ha avuto una relazione extraconiugale con un’ex dipendente. Quando la moglie trova una lettera d’amore, corre nel suo ufficio e scambia la nuova impiegata per l’ex amante, un equivoco che darà il via a degli eventi drammatici.

Il Woody Allen coreano“, l’ha definito una volta il delegato generale di Cannes Thierry Frémaux, forse anche per questo suo minimale ritornare su temi sottilmente variati e continuamente scandagliati. Una diversità nella continuità che sembra il suo marchio di fabbrica: “Non mi preoccupo di fare qualcosa di nuovo – ha detto Hongo Sang-soo – ma in ogni caso sono sempre diverso da com’ero ieri, e quindi nel modo in cui reagisco, metto insieme e combino gli elementi c’è sempre qualcosa di nuovo, anche se le differenze sono impercettibili”. Il regista in The Day After ritrova per la quarta volta una delle sue attrici preferite, Kim Min-hee, che solo qualche mese fa al festiva di Berlino aveva vinto il premio come migliore attrice per On the beach at Night Alone.

L’intrusa di Leonardo Di Costanzo, Quinzaine des Realisateurs

Leonardo Di Costanzo è uno dei migliori documentaristi italiani, il cui nome ha cominciato a girare anche al di fuori del circuito degli appassionati del “cinema del reale” – circuto che però si sta ampliando molto, basti il nome di Gianfranco Rosi – grazie al suo notevole primo lungometraggio di finzione, L’intervallo (2012), che parlava di camorra con un taglio originale, minimale e meditativo, che scartava da qualsiasi spettacolarità o sensazionalismo da romanzo criminale. Con quel film aveva vinto il David di Donatello come miglior regista esordiente (definizione un po’ bizzarra per un autore col suo curriculum!).

L’intrusa è il suo secondo film di finzione, con cui sbarca per la prima volta al festival di Cannes, accolto nella prestigiosa sezione parallela della Quinzaine des Realisateurs. Il film racconta la storia di Maria, una giovane donna sposata a un criminale arrestato per omicidio. La sua preoccupazione diviene quella di sottrarre i propri figli alla logica costrittiva e degradante della violenza, risucendo a trovare una sponda in un centro alla periferia di Napoli che accoglie tante altre donne, come lei, assillate dallo stesso problema.

Dietro questo film, costruito con la logica del cinema del reale sul quale si innesta un meccanismo di finzione, c’è la storia di persone vere, il loro impegno di volontarie dedicate alla difesa e al recupero di aree di frontiera della città. E anche il luogo in cui Leonardo Di Costanzo ha girato è verissimo, una masseria nel quartiere napoletano di Ponticelli nel quale ha sede ArciMovie, l’associazione che fa del cinema strumento di cultura e aggregazione, con la quale il regista collabora da tempo in qualità di direttore dell’Atelier di Cinema del reale, una scuola di formazione al linguaggio del documentario.

Però “L’intrusa non è un film sulla camorra – ha dichiarato Leonardo Di Costanzo – ma su chi ci convive, chi giorno per giorno cerca di sottrarle terreno, persone, consenso sociale. La storia di Maria è simile a molte altre. In questi quartieri le ragazze appena adolescenti subiscono il fascino dei giovanotti malavitosi, restano ammaliate dal lusso facile, dalla bella vita. Poi prima o poi arriva l’arresto”. Ed è in quel momento che scatta la fine della dipendenza dall’uomo, e la giovanissima madre acquisisce consapevolezza, senso di responsabilità verso i propri figli, desiderio di cambiamento. Trovando una risposta nelle sacche di resistenza che gli anticorpi della periferie, raccontate spesso solo come come luoghi di degrado, sono sempre in grado di produrre. Uscita prevista in sala, da non perdere, in autunno, distribuito da Cinema di Valerio De Paolis.