Sole cuore amore, quando il lavoro non rende liberi

Isabella Ragonese è una giovane madre che pur di lavorare è disposta a qualunque sacrificio. Sempre col sorriso sulle labbra. Il regista Daniele Vicari prende il titolo da una canzonetta, ma racconta il dramma del precariato. Un film necessario, che non funziona fino in fondo.

Sole cuore amore, dramma del lavoro con Isabella Ragonese

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“La macchina da presa esce dalle case piccolo-borghesi del cinema camera e cucina degli anni Ottanta”, scriveva tempo fa Daniele Vicari parlando del nuovo cinema italiano, “va a cercare vicende umane oltre le tangenziali, per far respirare finalmente lo sguardo” e raccontare “un redivivo personaggio-uomo”. “Le cose hanno un lato oscuro in cui bisogna ficcare il naso“, aggiungeva, e allora il privilegio del cineasta sta proprio in questa riscoperta della realtà, di luoghi e volti inesplorati, che attendono di essere narrati con partecipazione e rispetto.

Quasi una dichiarazione di poetica, che Daniele Vicari concretizza in Sole cuore amore, con una protagonista, Eli (Isabella Ragonese), che abita “oltre le tangenziali”, a Torvaianica, col marito disoccupato Mario (Francesco Montanari) e quattro figli. Ogni giorno, sveglia alle 4.30, raggiunge il bar della capitale dove lavora, sottopagata. Una fatica che vive col sorriso sulla labbra, per l’orgoglio del suo “saper fare” e per una naturale curiosità verso gli esseri umani, siano la collega barista araba o l’eterogenea fauna degli avventori. Nel bene e nel male le cose si reggono in equilibrio, grazie alla rete di relazioni, soprattutto l’amica ballerina Vale (Eva Grieco) che aiuta Eli coi bimbi. Ma quando il suo cuore sussulta, l’equilibrio si sbriciola.

Sole cuore amore è un dramma del lavoro interamente al femminile, illuminato dall’interpretazione di Isabella Ragonese. Il titolo, con amara ironia, deriva da una canzonetta che vagheggia una felicità spensierata, impossibile per Eli, asfissiata da ristrettezze economiche, con un principale padre padrone (Francesco Acquaroli, di sgradevolezza giustamente misurata) e una realtà senza opportunità.

Ed è un cinema necessario, politico, che parla finalmente di precariato non intellettuale e si smarca da modelli rappresentativi usurati, raccontando un litorale laziale che non è quello della narrazione unica criminale e personaggi maschili non soltanto violenti (ci sono, insieme però all’amorevole, semmai inconcludente, Mario).

Sole cuore amore vuole sottrarsi al realismo puro, al ricatto dell’ideologia e del populismo da “caso umano”. Quindi Eli è un carattere solare e la colonna sonora (di Stefano di Battista) vira su un jazz vitale e non malinconico. Per questo, anche, Vicari fa spazio alla storia dell’amica Vale, che offre un contraltare con la sua estrazione borghese, la conflittualità con la madre, una sensibilità che rende precaria l’identità sessuale, le sue performance d’artista.

Però, pur comprendendo le lodevoli intenzioni di Sole cuore amore, i due racconti finiscono per non armonizzarsi. E ne risente anche lo stile, col (neo)realismo da pedinamento del personaggio che si sovraccarica di simbolismi piuttosto didascalici: il cappotto rosso di Eli, le immagini fuori fuoco a indicare gli smarrimenti, i timelapse a sottolineare la frenesia alienante dell’esistenza.

L’impasto di stili diventa palese nell’ultima sequenza, acme narrativo, emotivo, morale di Sole cuore amore, in cui Vicari salta continuamente in montaggio parallelo da Eli a Vale (che balla indossando anche lei un abito rosso, altro simbolismo), sfociando in un impasto tra oggettivo e soggettivo, tra cronaca e lirismo, che però alla fine sembra retrocedere davanti all’imperativo di filmare e prendersi carico della realtà per quella che è.