La tenerezza, un magnifico, doloroso ritratto della vecchiaia di Gianni Amelio

Il regista torna al suo tema prediletto, il rapporto tra padri e figli. Un film sui sentimenti per nulla sentimentale. In cui persino Napoli diventa una città fredda ed estranea. Nel cast Elio Germano, Micaela Ramazzotti, Giovanna Mezzogiorno. Ma a dominare la scena è Renato Carpentieri.

La tenerezza, magnifico ritratto della vecchiaia di Gianni Amelio

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La tenerezza, liberamente tratto dal romanzo di Lorenzo Marone La tentazione di essere felici è un magnifico ritratto della vecchiaia, e segna il ritorno di Gianni Amelio all’altezza della sua ispirazione migliore e al tema più caro, i legami familiari. Lorenzo (Renato Carpentieri), vedovo napoletano settantenne appena ripresosi da un infarto, ex avvocato non proprio integerrimo (lui stesso si definisce “famigerato”), coi figli Elena (Giovanna Mezzogiorno) e Saverio (Arturo Muselli) ha un rapporto a dir poco scostante (“non siete neanche pronti a diventare orfani” dice loro, con la sua caratteristica sgradevolezza).

Va giusto un po’ meglio col nipotino (Amelio si conferma bravissimo nel dirigere i bambini) e la coppia di vicini appena trasferitisi a Napoli, la solare Michela (Micaela Ramazzotti) e il taciturno Fabio (Elio Germano), ingegnere triestino che mal digerisce il calore disordinato della città. La scorza refrattaria di Lorenzo viene messa a dura prova da un evento inaspettato, che lo obbliga a riconsiderare le sue posizioni, in un progressivo, toccante percorso di riavvicinamento a Elena, l’unica a non essersi rassegnata all’insensibilità paterna.

È qui la tenerezza richiamata nel titolo, inseguita in un lungo giro fatto di sentimenti pudichi e mai serenamente felici. Il film è scandito da spostamenti emotivi faticosi e millimetrici di personaggi irrimediabilmente soli: il vedovo Lorenzo, l’orfana Michela, lo sradicato Fabio, Elena e Saverio che, lamenta il padre, non sono fratelli l’uno all’altra.

La tenerezza è tutto nel segno dell’estraneità. Non a caso le prime parole del film sono in un’altra lingua, le dichiarazioni in arabo di un clandestino in tribunale – un uomo alla ricerca d’una casa, come tutti nel film -, dove Elena lavora come traduttrice. Lei sostiene che per capire cosa dicono gli immigrati, invece di tradurre alla lettera le parole bisognerebbe concentrarsi “sul tono della voce, il loro respiro, gli occhi”. È quello che invita a fare Gianni Amelio con La tenerezza: che vive dei dettagli impercettibili d’una messinscena raffinata e taciturna, in cui certi didascalismi dei dialoghi e nella scrittura dei personaggi vengono riscattati dalla forza visiva di un’opera potentemente cinematografica e dalla prova degli interpreti, su tutti un Carpentieri maiuscolo.

Ne La tenerezza persino Napoli, luogo quant’altri mai incrostato di rappresentazioni stereotipate, viene messa in scena come fosse una terra straniera. Pur riconoscibilissima, è una città senza Gomorra ed oleografia, senza squarci turistici o grandi bellezze, raccontata come un reagente tragico, uno sfondo che non abbraccia i suoi figli ma li respinge (le lunghe passeggiate di Lorenzo e Fabio tra strade che li assediano e però restano sempre fuori fuoco).

La felicità non è una meta da raggiungere, ma una casa a cui tornare” dice Elena: è questa la ragione per cui i protagonisti vivono scollati dal contesto che pure li ha generati e contraddittoriamente nutriti. Prima che alla città, sono stranieri a loro stessi. E solo scovando nella memoria più riposta un gesto di tenerezza e la necessità, nonostante tutto, dei legami affettivi, riescono a riannodare il filo emotivo che li lega alla loro terra, per ridiventarne finalmente figli.