La mia vita da Zucchina è un gioiello del cinema di animazione europeo

Il film in stop-motion di Claude Barras racconta ad altezza bambino storie di orfani e famiglie difficili. Lo stile è asciutto e commovente, in bilico tra realismo e favola. Merito anche della sceneggiatura di Céline Sciamma. Un cinema d'animazione che parla ad adulti e bambini.

La mia vita da Zucchina

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La mia vita da Zucchina (Ma Vie de Courgette, 2016) parla di orfani, genitori alcolizzati, pedofilia, persino bambini che ammazzano la madre. Un simile concentrato di sventure, oltretutto visto nella prospettiva dei ragazzini che queste terribili disgrazie hanno subito, avrebbe potuto condurre a un film ricattatorio, strappalacrime. La mia vita da Zucchina non è nulla di tutto questo.

Passato con successo alla Quinzaine des Réalisateurs di Cannes e distribuito dall’ottima Teodora, il film d’animazione con pupazzi in stop-motion di produzione franco-svizzera, diretto da Claude Barras, è una sorpresa. Il merito va ascritto anche a Céline Sciamma, acuta regista di storie d’adolescenti controcorrente (Tomboy, Diamante nero) che, dopo quella firmata per il bellissimo Quando hai 17 anni di André Téchiné, realizza un’altra sceneggiatura esemplare (adattando Autobiografia di una Zucchina di Gilles Paris), in equilibrio tra realismo e trasfigurazione fantastica, asciuttezza e giusta commozione.

Icare, bambino di nove anni che preferisce farsi chiamare Zucchina, dopo essere rimasto orfano per la morte da lui inavvertitamente causata d’una madre alcolista, viene spedito in un istituto pieno di ragazzini con storie simili alla sua. C’è il bullo Simon, figlio di tossicodipendenti; Béatrice, i cui genitori immigrati sono stati espulsi dal paese; Alice, che ha assistito a un terribile omicidio-suicidio e tiene sempre gli occhi sotto un gran ciuffo di capelli, forse per non vedere più nient’altro. Zucchina, che porta con sé un aquilone e una lattina, mesti ricordi di padre e madre, dopo le prime scaramucce lega con gli altri bambini e trova nel personale dell’istituto degli interlocutori adulti sensibili. Quando arriva Camille, ragazzina difficile e bellissima, il cuore di Zucchina comincia a palpitare, e la sua vita cambia ancora.

La mia vita da Zucchina è un racconto di formazione senza eufemismi, che esplicita il sottofondo tragico della vicenda, anche attraverso frasi pronunciate dai bambini in cui l’ingenuità propria dell’età si mescola a una dolorosa maturità prima del tempo (“Siamo tutti uguali qui, non c’è più nessuno che ci ami”). Durezza e franchezza, però, sono attenuate dal filtro applicato, quello d’un punto di vista che resta sempre ad altezza bambino. Molto dipende anche dal ricorso ai pupazzi e alla tecnica della stop-motion che, contrariamente a tanta animazione digitale ipercinetica, regalano al racconto un ritmo meditato, in cui la lentezza è l’altra faccia della delicatezza messa dagli autori nella narrazione di questi giovanissimi, indifesi personaggi.

Proprio il fatto che il mondo venga prima raccontato nelle sue brutture rende più credibile la nota di speranza finale. La mia vita da Zucchina insegna che le cose possono cambiare, ma bisogna sapere che bene e male esistono l’uno accanto all’altro, divisi da un esilissimo filo. Perciò, per spiegarne la prossimità, il film ricorre a simboli ambivalenti, che cambiano di segno nel corso del racconto. La malinconica lattina di Zucchina si trasforma in un’oggetto che aiuterà Camille; e le tacche per segnare la crescita del bambino, che la mamma di Zucchina faceva sul muro in corrispondenza di un’ennesima tragedia da ricordare, serviranno finalmente per celebrare gli avvenimenti felici d’una nuova vita.