La ragazza senza nome, il cinema morale dei Dardenne tra colpa e responsabilità

Per la prima volta i due registi belgi si affidano al genere e firmano un giallo. Il risultato è più meccanico, meno sorprendente del solito. Ma resta l’esempio rigoroso di un cinema umanista che cerca un dialogo adulto con lo spettatore.

La ragazza senza nome

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La ragazza senza nome è una donna di colore che bussa alla porta d’un ambulatorio. L’orario delle visite è terminato e il giovane medico Jenny (Adèle Haenel) decide di non aprire, senza sincerarsi di chi si tratti. Il giorno dopo la polizia le fa sapere che la ragazza è morta. Dalle telecamere di sorveglianza si vede l’immagine di quella donna, visibilmente spaventata. Jenny sente il bisogno di dare un nome a quel volto e inizia un’indagine informale per ricostruire i fatti.

I fatti sono il cuore dei film dei fratelli Jean-Pierre e Luc Dardenne, autori da sempre di un cinema comportamentale, che mette tra parentesi la psicologia e si concentra sui concreti atti individuali. La loro macchina da presa talvolta assedia i protagonisti (Rosetta, Il figlio) talvolta, come ne La ragazza senza nome, li segue con maggiore discrezione. Il fine però è il medesimo: far emergere, attraverso i gesti, la sostanza morale di cui sono fatte le scelte dei personaggi.

Jenny è un medico coscienzioso: sebbene al proprio stagista predichi l’arte della freddezza, a suo dire indispensabile per essere un buon dottore, nella pratica quotidiana è attenta alle esigenze anche emotive dei pazienti. La mancata risposta a una richiesta di aiuto è quindi per lei intollerabile. E sebbene la polizia la tranquillizzi, dicendole che il suo comportamento è stato professionalmente ineccepibile, come essere umano si sente chiamata in causa. Il senso di colpa la richiama al senso di responsabilità. Che impone di agire.

Come s’era già visto nella narrazione contratta in un tempo definito del precedente Due giorni, una notte, La ragazza senza nome è il segnale del progressivo spostarsi dei Dardenne da un cinema di purissimo realismo, spoglio e quasi documentario, verso racconti più prossimi ai generi tradizionali. Infatti il film si sviluppa secondo i canoni classici della detection, come un giallo in cui alla fine viene rivelato il colpevole.

L’indicazione del colpevole però non ricompone il quadro de La ragazza senza nome in maniera tranquillizzante. Al contrario, è il punto in cui s’addensano le domande di una vicenda che ruota intorno a morale, colpa e responsabilità. Non è un caso che la vittima sia africana: la mancata risposta del medico – non dimentichiamolo, professionalmente ineccepibile – rimanda scopertamente a più vasti silenzi, alle omissioni che l’Europa contemporanea oppone alle richieste di aiuto che giungono alle sue porte. Ma trattandosi dei Dardenne, questo sottotesto è una traccia impigliata tra le pagine del racconto, che affiora senza didascalicità attraverso le reazioni reticenti delle persone normali che Jenny incrocia nella sua indagine.

Sono loro, siamo noi i destinatari di un’opera realizzata, come dichiarato dai registi, per responsabilizzare il pubblico. Certo, La ragazza senza nome è troppo debitore dei meccanismi del giallo. Resta però l’esempio onesto di un cinema umanista che si rifiuta di intrattenere e in cui anche il rigore formale, mai estetizzante, è al servizio di quell’alterità posta aldilà dello schermo con cui il film vuole entrare in una relazione adulta. Quello spettatore anonimo del quale i Dardenne cercano volto e nome.