Addio a Dario Fo, il giullare che vinse il premio Nobel

A novant’anni scompare una delle grandi figure della cultura italiana del Novecento. È stato un artista rinascimentale: drammaturgo, attore, scrittore, pittore e tante altre cose ancora. Soprattutto, è stato un uomo che ha diviso l’opinione pubblica: sempre schierato e sempre destinato a scontentare qualcuno.

Dario Fo

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È morto Dario Fo, a novant’anni, era ricoverato da diversi giorni all’ospedale Sacco di Milano per problemi polmonari. Se ne va una figura incisiva della cultura italiana del Novecento, un uomo rinascimentale che ha affrontato tutte le arti e tutti i linguaggi: il teatro soprattutto, da attore e drammaturgo, ma anche cinema, pittura, scrittura, televisione e radio. E alla fine era arrivato anche il premio Nobel per la letteratura, nel 1997, l’ultimo vinto da un autore italiano. Un riconoscimento che lui salutò sottolineando il coraggio dell’Accademia svedese e rimarcando il ruolo avuto dalla compagna di una vita, Franca Rame, nella realizzazione dei suoi testi.

Allora, però, la comunità degli scrittori italiani non accolse con molto favore il premio. E questo è un destino comune a gran parte della sua carriera, che è quella di un artista destinato a dividere e scontentare. Ma naturalmente, nell’ora della scomparsa, è il momento dei riconoscimenti pubblici, dal primo ministro Matteo Renzi, “Con Dario Fo l’Italia perde uno dei grandi protagonisti del teatro, della cultura, della vita civile del nostro Paese”, a Beppe Sala, sindaco della sua città, Milano, “Perdiamo uno dei più grandi rappresentanti della letteratura, del teatro e della cultura milanese e italiana”.

Era nato nel 1926 a Sangiano, un paesino in provincia di Varese, dove aveva respirato un mondo sagomato su una cultura popolare, crocevia di vite e dialetti lombardi di cui si ricorderà in età matura, quando giocherà con le sue lingue inventate, quei grammelot impastati di dialetti del Nord Italia. Poi il passaggio a Milano, dove dopo la guerra frequenta l’Accademia di Belle Arti di Brera e colleziona le prime esperienze legate alla scrittura e al teatro, con i monologhi radiofonici del Poer nano, e le riviste satiriche per il teatro, Il dito nell’occhio, Sani da legare, recitati nella compagnia fondata insieme a Franco Parenti e Giustino Durano.

Alto, dinoccolato, un volto dai tratti bizzarri, c’era un che di astratto e fuori dalle righe nella figura del giovane Dario Fo, che fu sfruttato benissimo da Carlo Lizzani, che lo diresse nel suo unico film da protagonista, Lo svitato, del 1956, di pochissimo successo perché giocato su gag dal sapore classico, vestite sulla sua identità stralunata. In quel film accanto a Fo c’era anche Franca Rame, che due anni prima era diventata sua moglie, con un matrimonio tradizionalista nella basilica di Sant’Ambrogio. Franca Rame è l’incontro decisivo della sua vita: un’attrice che veniva da un’antichissima famiglia di teatranti girovaghi e aveva respirato sin dalla nascita il sapore del teatro, quello portato sulle piazze e le strade, impregnato degli umori della Commedia dell’arte e del gusto dell’improvvisazione.

Insieme, danno vita a un sodalizio che gioca su un teatro farsesco che sempre più inclina sulla critica di costume, indirizzata a satireggiare la vita borghese, la classe che col nascente boom economico comincia a prendere forma anche in Italia. Ed è il successo, che arride con un vasto ciclo di commedie, Gli arcangeli non giocano a flipper (1959), Isabella tre caravelle e un cacciaballe (1963), Settimo ruba un po’ meno (1964). Vengono scelti dalla Rai per condurre il programma di punta della rete, Canzonissima, nel 1962. Ed è il primo scandalo, perché gli sketch a sfondo sociale su malversazioni e morti bianche esplodono dirompenti nella prima serata televisiva. E i due sono costretti ad abbandonare il programma, sostituiti da Tino Buazzelli e Sandra Mondaini.

Anche da lì, e da una progressiva stanchezza verso un teatro che dileggiava i borghesi ma era in sostanza a loro destinato, nasce la svolta che porta, stante anche l’aria di contestazione che si respira in prossimità del Sessantotto, alla nuova drammaturgia di Dario Fo. Che insieme a Franca Rame abbandona i teatri e va a cercare il pubblico nelle case del popolo, nelle camere del lavoro, nelle fabbriche, in mezzo a operai e studenti. E che soprattutto riscopre le antiche radici del teatro popolare italiano, quel patrimonio che rimontava al teatro di piazza, i giullari, la Commedia dell’arte.

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È quel modello il cui massimo esempio è Mistero buffo, vero capolavoro di Dario Fo, un monologo messo in scena per la prima volta nel 1969 in cui l’attore è solo sulla scena e crea un fascinoso impasto di lingue – l’uso del celebre grammelot – e storie che affondavano in una tradizione teatrale e culturale secolare, costruendo una satira al centro della quale erano idealmente i poveri cristi di ogni tempo e ogni luogo, da sempre alle prese coi soprusi subiti dalle classi subalterne. Un teatro dall’anima profondamente critica verso il potere e le classi dominanti, ma che si fonda su strumenti espressivi di antico lignaggio. Un modo di far teatro attraverso una voce monologante e civile che Dario Fo perfezionerà negli anni, sino a un altro spettacolo bellissimo del 1991, Johan Padan a la descoverta de le Americhe, in cui il gusto per la narrazione si mescola anche con la passione per la pittura). Un modo di far teatro che ha certo avuto un’influenza profonda sul teatro di narrazione dei Paolini e dei Celestini, divenuto così popolare in quest’ultimo ventennio.

Agli anni Settanta appartiene la stagione più impegnata di Dario Fo, con spettacoli celebri come Morte accidentale di un anarchico (1970) e Il Fanfani rapito (1975), un teatro sempre più scopertamente politico, sagomato sull’urgenza di un’attualità aggredita con gesto satirico. Sono gli anni della fondazione del Collettivo La Comune nel 1970, l’occupazione della Palazzina Liberty a Milano, la vicinanza e poi la rottura col Pci, l’avvicinarsi alla sinistra extraparlamentare, la fondazione di Franca Rame di “Soccorso rosso” per sostenere i detenuti politici, da Pietro Valpreda agli ex di Lotta Continua, Adriano Sofri, Giorgio Pietrostefani e Ovidio Bompressi, accusati dell’omicidio Calabresi (a cui ancora nel 1998 era dedicato il testo satirico, Marino libero! Marino è innocente!, sul pentito Leonardo Marino).

Dario Fo resta una figura centrale della storia del teatro e della vita civile italiana. Spesso criticata: quando emerse la sua militanza giovanile nelle Brigate nere durante gli anni della Repubblica di Salò, per esempio, o per il suo schierarsi in questi ultimi anni dalla parte del Movimento 5 Stelle – Beppe Grillo lo saluta con un post sul suo blog. Discusso è stato anche il modo in cui Fo si è riappropriato della tradizione giullaresca e popolare, che lui reinterpreta e riutilizza in una chiave probabilmente eccessivamente politica. E studiosi e filologi inorridirono quando lui alla bibliografia del Manuale minimo dell’attore – testo affascinante, vera summa della sua idea di teatro che pesca ecletticamente dalla tradizione – antepose la frase “Le nostre fonti non sono sempre attendibili, ma di certo sono quasi sempre affascinanti”. Ma Dario Fo era questo, un intellettuale a tutto tondo in cui arte e politica avevano finito per sovrapporsi e a volte confondersi. Caratterizzato però da un’abnegazione, un’urgenza espressiva e una generosità innegabili, mantenute sino all’ultimo, anche dopo la morte nel 2013 di Franca Rame, attraverso un’operosità che non è venuta mai meno – e infatti è in uscita il suo ultimo libro, Darwin. Forse non ha trovato eredi capaci di ripeterne il modello – troppo singolare –, ma ha lasciato tracce feconde nella nostra cultura.