“Fuocoammare” stasera in prima tv, per la Giornata in memoria delle vittime dell’immigrazione

Su Rai 3 alle 21.15 c’è il documentario su Lampedusa di Gianfranco Rosi, recentemente selezionato per rappresentare il cinema italiano agli Oscar. Una scelta che ha scatenato polemiche, con Paolo Sorrentino che ha parlato di “scelta masochistica”. Il documentario resta un “parente povero” del cinema o lo cose stanno cambiando?

Fuocoammare_di_Gianfranco_Rosi

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Stasera Rai 3 propone in prima tv il documentario Fuocoammare di Gianfranco Rosi, per celebrare la Giornata nazionale in memoria delle vittime dell’immigrazione, istituita con una legge approvata nel marzo del 2016. La scelta della data è legata al naufragio avvenuto il 3 ottobre del 2013, quando un’imbarcazione di migranti in gran parte eritrei affondò nei pressi delle coste dell’isola di Lampedusa, una tragedia in cui persero la vita almeno 366 persone.

Proprio Lampedusa è il fulcro di Fuocoammare (qui la nostra recensione), che racconta l’emergenza immigrazione vista nell’ottica degli isolani, primo fra tutti il medico Pietro Bartolo, cui è demandata la prima assistenza nei numerosi sbarchi di migranti. Ed è difficile non essere coinvolti dallo sguardo e dalle riflessioni dolorose del medico, la cui commozione per i drammi cui assiste non s’indurisce mai nella routine del mestiere e costituisce quindi un controcanto morale che costringe gli spettatori a un esercizio di riflessione ed empatia rispetto alla tragedia senza fine che ha continuamente luogo nel centro del Mediterraneo.

Fuocoammare di Gianfranco Rosi è in questi giorni al centro di alcune polemiche: dopo aver vinto nel febbraio scorso l’Orso d’oro al festival di Berlino dalla giuria presieduta da Meryl Streep (che parlò di “un documentario urgente, immaginativo e necessario”), la pellicola è stata recentemente selezionata dalla Commissione dell’Anica come candidato italiano ai prossimi premi Oscar nella categoria per il miglior film straniero, prevalendo per 5 voti a 4 su Indivisibili di Edoardo De Angelis.

Le dichiarazioni a caldo del votante Paolo Sorrentino hanno infiammato il dibattito: il regista premio Oscar ha parlato di “scelta masochistica”, di “segno di debolezza del cinema italiano”, intendendo dire che un documentario non può incontrare i favori dei giurati dell’Academy. A Sorrentino ha risposto il collega Roberto Andò, direttore della Scuola di Documentario del Centro Sperimentale, che ha detto: “Un documentario è un film a tutti gli effetti. È giusto che il cinema non abbia distinzione alcuna. Spero che Fuocoammare smuova le categorie americane e soprattutto le coscienze”.

In questa polemica non è in gioco la qualità dei due film, entrambi interessanti – lo stesso Sorrentino ha premesso che il documentario di Rosi gli è piaciuto molto. I temi in gioco sono altri. Il primo è di opportunità: che chances può avere un documentario di vincere il premio Oscar, da sempre appannaggio dei film di finzione? Storicamente i favori dei giurati dell’Academy vanno quasi sempre a quelli che un pubblico colto americano riconosce come “film d’autore”. Vale a dire pellicole che uniscono un tema importante, di tipo sociale o esistenziale, a una riconoscibile cifra stilistica. Basta vedere gli ultimi quattro ultimi vincitori, tutti europei: Amour di Haneke, La grande bellezza di Sorrentino, Ida di Pawlikowski e Il figlio di Saul di Nemes. Sono tutti rubricabili come film d’arte, anche perché il loro modello narrativo – e questo nell’ottica del premio è un pregio – è assai diverso dal mainstream hollywoodiano. Sono film meno spettacolari, più lenti e pensosi. Ma sono tutti indubitabilmente film di finzione.

In questo senso è impossibile dire che Sorrentino abbia torto. Le sue considerazioni sono di ordine strategico e hanno a che vedere con la capacità del nostro cinema, inteso come movimento e come industria, di far sentire la propria voce nel mercato statunitense. E gli Oscar sono un momento fondamentale per la promozione d’una cinematografia oltreoceano. E sebbene Gianfranco Rosi ricordasse che proprio Meryl Streep nel consegnargli l’Orso d’oro a Berlino gli avesse sussurrato all’orecchio di essere a sua disposizione per aiutarlo nella corsa agli Oscar, è improbabile che Fuocoammare possa concorrere in questo tipo di competizione. Senza dimenticare che agli Oscar i documentari hanno una categoria apposita, nella quale il film di Rosi è tra i favoriti.

Tuttavia queste riflessioni non devono spingere ad affermare, ed è il secondo tema indirettamente in gioco in questa polemica, che il documentario sia una sorta di genere minore, un parente povero del cinema di finzione. Lo è produttivamente, certo, ma non concettualmente. Storicamente il racconto della realtà è sempre stato un elemento sostanziale del cinema, a partire dai fratelli Lumière. E ciò vale più che mai oggi, in una stagione in cui il documentario sta acquistando una grande centralità nell’immaginario e una visibilità testimoniata da tanti premi. Gianfranco Rosi prima dell’Orso d’oro aveva vinto il festival di Venezia con Sacro GRA, e sempre Venezia ha assegnato una Leone alla carriera due anni fa a Frederick Wiseman, uno dei maggiori documentaristi viventi. All’ultimo festival di Venezia la sezione collaterale Orizzonti è stata vinta da Liberami di Federica di Giacomo, documentario sugli esorcisti che usa il linguaggio del cinema diretto.

Soprattutto, il documentario costituisce un modello di approccio alla realtà – sempre più spesso si parla infatti di “cinema del reale” – che fa sentire la propria influenza anche nel cinema di finzione. Sono tanti i registi che, prima di esordire nel cinema di finzione, hanno fatto tesoro dell’apprendistato nel documentario – basterebbe il nome di uno dei nostri autori maggiori, Matteo Garrone. E numerosi sono gli autori che fanno la spola tra l’uno e l’altro, come Leonardo Di Costanzo, Andrea Segre, Francesco Munzi, che dopo aver vinto il David di Donatello con Anime nere ha realizzato Assalti al cielo, un documentario sugli anni Settanta realizzato con materiali di repertorio.

Anche Indivisibili, presunto “avversario” di Fuocoammare, è un film che fa tesoro della lezione del documentario, in un racconto segnato dall’uso del dialetto e da luoghi ritratti con precisione realista – su cui poi Edoardo De Angelis innesta il suo sguardo e la sua sensibilità visionaria. In questo senso ha ragione Emiliano Morreale quando sottolinea su la Repubblica che il documentario, più che essere un genere, è un metodo d’approccio alla narrazione, con un’idea di sceneggiatura più aperta, che non si limita a un copione definito ma mantiene aperta una finestra sulla realtà e sulle occasioni di scrittura che possono giungere dall’esterno.

Non per questo il documentario va ridotto a una sorta di reportage giornalistico. Ce lo ricorda proprio Fuocoammare: che non è la cronaca della tragedia dei migranti, ma un racconto di forte impronta autoriale che accosta la vita quotidiana degli isolani alle storie degli immigrati, componendo un ritratto composito e non strettamente di denuncia su un pezzo di mondo visto senza preconcetti e un profondo senso di pietas. In conclusione, Sorrentino ha certamente ragione: ma la speranza è che nel tempo quello steccato che ancora oggi separa fiction e documentario venga abbattuto, per ripensare due categorie che la pratica dimostra assai più contigue di quanto normalmente si pensi. Rendendo così un giorno superflue le comprensibili, per ora, argomentazioni del regista napoletano.