La vita possibile, il film sulla violenza alle donne visto da una psicoterapeuta

Ivano De Matteo racconta la storia di una donna che scappa dal marito violento insieme al figlio, per rifarsi una vita. Ne abbiamo parlato con un'operatrice di un centro di sostegno per uomini maltrattanti. Che ha apprezzato il film. Ma ha rilevato un limite: l’assenza dell’uomo. Come se non ci potesse essere anche per lui la speranza di una “vita possibile”.

La vita possibile Margherita Buy

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“Il merito del film di Ivano De Matteo sta nel ricordare che le donne vittime di maltrattamenti possono riconquistare una ‘vita possibile’. Il limite, dal mio punto di vista, è di mettere tra parentesi l’uomo maltrattante, come se non si potesse recuperare anche lui”.

Il film è La vita possibile, storia di una madre vittima di soprusi, Anna (Margherita Buy), che abbandona marito e città col figlio tredicenne Valerio (Andrea Pittorino), trovando rifugio a Torino presso un’amica, Carla (Valeria Golino). Il punto di vista è quello di un’operatrice sul campo, Maria Concetta Mingiano, psicologa e psicoterapeuta, referente del Centro di Sostegno Uomini Maltrattanti, un progetto dell’Aied, sezione Napoli, nato due anni fa, dove un gruppo di psicologi e sociologi lavorano alla rieducazione affettiva degli uomini che agiscono violenza verso le donne.

Abbiamo voluto vedere e commentare insieme a lei La vita possibile, per capire quali spunti possa offrire il film di Ivano De Matteo al dibattito. Un dibattito che, comprensibilmente, si concentra sul tema della violenza che, a leggere le statistiche, ha numeri impressionati. Il rischio però è quello di schiacciare la riflessione su questo unico dato e mettere tra parentesi il lavoro di centri e operatori che si preoccupano di restituire una “vita possibile” a donne e figli maltrattati. E anche agli uomini maltrattanti.

Com’è il ritratto di donna che costruisce La vita possibile?
È un personaggio credibile – dice Maria Concetta Mingiano –, una donna ferita, che non trovando l’aiuto richiesto nelle agenzie preposte a questo, polizia, Tribunali, è costretta a lasciare tutto per mettersi in sicurezza. È una donna che sperimenta anche un devastante senso di colpa, perché spesso le donne vittime di violenze si convincono di essere responsabili, di essere la causa delle violenze che subiscono. Il senso di colpa di Anna è reso ancora più forte dalla consapevolezza che l’allontanamento da casa ha interrotto il legame tra suo figlio e il padre, causando una sofferenza profonda nel ragazzino. Valerio è dilaniato tra la solidarietà e il senso di protezione verso la madre e la mancanza nella sua vita del padre. Infatti, vaga per una città estranea, senza amici, un po’ lasciato a se stesso nella sua ricerca di surrogati affettivi: una prostituta ragazzina da cui si sente confusamente attratto, forse perché la vede disperata come lui, e un uomo, Mathieu, che diventa la figura maschile di riferimento.

Anna deve ricostruirsi un’esistenza, psichica e materiale.
Anna è determinata a cercare un lavoro, e ne trova uno che la costringe anche a turni di notte. Il che da un lato non le permette di seguire come vorrebbe il figlio, ma dall’altro costituisce un fattore di riscatto necessario. Le donne con un lavoro hanno molte più chances di ricrearsi una vita, perché non subiscono il ricatto della dipendenza materiale ed economica dal compagno. Spesso le donne vittime di violenza non abbandonano il marito non solo per paura di ritorsioni, ma perché non hanno mezzi per sopravvivere. La ricerca del lavoro, La vita possibile lo racconta bene, è un passaggio fondamentale per ritrovare stima e fiducia in se stessa, per riprendere nelle proprie mani le fila di una vita offesa, bloccata dalla violenza subita e dalla paura sperimentata.

È significativo il ruolo di Carla, l’amica che accoglie Anna a Torino.
La solidarietà femminile che si crea nel film è importante. La rete di relazioni esterna al nucleo familiare è un patrimonio cui attingere, determinante per una persona in difficoltà che ha bisogno di poter far affidamento su qualcuno. In questo caso si tratta di un’amica caratterialmente molto diversa da Anna. Carla è un’attrice un po’ pasticciona ma emotivamente coinvolgente, che trasmette un calore di cui madre e figlio hanno bisogno. Carla oltretutto condanna con decisione il marito di Anna, ed è un solido contraltare ai dubbi che la donna ha costantemente circa le proprie scelte.

Nel film però manca il marito.
La vita possibile è un film incentrato sulla possibilità, per una donna vittima di violenza, di spezzare le catene che la legano al compagno violento, per ricostruirsi la vita in un altrove, insieme al proprio figlio. Non c’è spazio, in questa narrazione, per l’uomo che l’ha sistematicamente maltrattata. Tuttavia, nella vita reale non possiamo, semplicemente, mettere da parte l’uomo maltrattante, fare scendere il sipario su di lui e non pensarci più. Il lavoro mio e di tutta l’équipe nel Centro di Sostegno Uomini Maltrattanti è proprio incentrato sul dialogo con questi mariti e compagni violenti. Ed è un lavoro complesso, perché molti uomini faticano a riconoscersi come persona maltrattante, soprattutto se la violenza agita è prevalentemente psicologica e non anche fisica. Parliamo di individui che fanno fatica ad ammettere i comportamenti violenti, di cui spesso non sono pienamente consapevoli. Di conseguenza, non ritengono di avere bisogno di aiuto.

In Italia gli uomini maltrattanti non sono tenuti per legge a seguire un percorso di recupero.
In altri paesi è così, purtroppo non in Italia. È difficilissimo convincere gli uomini a rivolgersi a un centro d’aiuto, soprattutto al Sud Italia. L’Aied ha un numero dedicato sempre attivo, organizziamo eventi, facciamo molta comunicazione, lavoriamo a stretto contatto con l’Ami di Napoli, l’associazione degli avvocati matrimonialisti italiani, che rivestono un ruolo fondamentale nel convincere gli uomini violenti a seguire un percorso di riabilitazione. Ma le resistenze sono tante.

Quindi avremmo bisogno di storie che raccontano questo versante maschile semisconosciuto.
Quando parliamo di violenza di genere a mancare è lo “sguardo” sull’uomo e sulla possibilità, anche per lui, di una vita possibile, resa tale da un percorso interiore di consapevolezza, accettazione e possibilità di cambiamento. Non parliamo di uomini che hanno massacrato, ucciso, per i quali esiste una legge che va applicata senza esitazioni o sconti. Parliamo di uomini che non hanno ancora superato la linea di “non ritorno”, uomini che possono realmente cambiare le proprie modalità relazionali, con grande vantaggio per la società tutta, oltre che per se stessi e per i propri cari. Soprattutto per i figli, con i quali, come accade per Valerio nel film, esiste un legame fortissimo che va recuperato e rinsaldato alla luce del cambiamento possibile.

Il film gioca troppo sul non detto.
Ci sono lunghe sequenze del ragazzino silenzioso che gira in bici per Torino. Certo, trasmettono il suo disagio, ma è un disagio che non si verbalizza. A un certo punto c’è un confronto importante tra Anna e Carla: purtroppo il film non ci fa sentire che cosa le due amiche si dicano. È come se La vita possibile facesse fatica a trovare le parole esplicite per raccontare la sofferenza. Dal punto di vista del racconto cinematografico questi non detti possono essere funzionali. Ma non lo sono nella prospettiva di una psicoterapeuta. Ci sono già troppi silenzi: il lavoro di sostegno agli uomini maltrattanti consiste proprio nel parlare, per far emergere in loro la consapevolezza delle violenze commesse, che spesso non posseggono.

Come si fa a evitare che, raccontando gli atti di violenza, questi uomini cerchino delle vie per giustificarsi?
Bisogna fare una distinzione fondamentale: in un Centro di Sostegno agli Uomini Maltrattanti non si fa psicoterapia, l’obiettivo è la rieducazione affettiva del paziente. Noi partiamo dall’assunto che ogni forma di violenza, fisica e psicologica, non abbia giustificazioni. E dunque blocchiamo sul nascere le argomentazioni autoassolutorie, che scattano puntualmente, perché l’uomo violento sostiene sempre di essere stato provocato. Il punto è proprio l’assenza di consapevolezza e l’incapacità di gestione dei sentimenti. È un percorso di rieducazione, che passa attraverso la verbalizzazione, l’ammissione della violenza, la decodificazione delle proprie emozioni e la possibilità di esprimerle in modo diverso dalla rabbia in cui vengono convogliate. Gli uomini maltrattanti sono convinti che l’amore si manifesti attraverso il potere che deriva dal controllo, mentre bisogna mettere al centro il rispetto dell’altra persona.

Tutto questo, in La vita possibile, non c’è.
Il problema è che il film comincia quando è già troppo tardi. Nel prologo vediamo l’uomo che esercita l’ultima di quella che intuiamo essere una lunga sequenza di violenze. È già una situazione esacerbata, apparentemente senza ritorno. Come operatori, dobbiamo intervenire prima che si arrivi a quel punto. E per farlo bisogna cominciare dalle scuole. L’Aied ha dei progetti sulla violenza di genere e la rieducazione affettiva indirizzati alle scuole medie e superiori. Perché non si tratta solo di rieducare gli uomini maltrattanti, ma di prevenire i comportamenti violenti, che dipendono anche da una cultura diffusa, condivisa purtroppo da maschi e femmine, secondo la quale l’amore non passa attraverso il rispetto ma il sopruso, e in cui il controllo asfissiante è vissuto come una manifestazione d’affetto.

Quindi bisogna lavorare sulla prevenzione.
Prevenzione è la parola essenziale, per abituare già i ragazzi nelle scuole ad acquisire una consapevolezza e una grammatica dei sentimenti, la capacità di esprimersi in una lingua emotiva all’insegna del rispetto e della libertà reciproche. Dobbiamo trovare le parole per raccontare tutto questo, abbattendo il muro di omertà, riserbi e non detti che impediscono di discutere alla luce del sole di questi temi. Ivano De Matteo ha realizzato un film rispettoso, sensibile e non sensazionalistico. Peccato però che La vita possibile non abbia allargato il proprio sguardo anche sulla figura maschile, ipotizzando una sua possibilità di riscatto. Il che non prevede necessariamente il ricongiungimento della coppia, ma un cambiamento possibile e necessario per costruire, tutti, una vita migliore.