Addio ad Abbas Kiarostami, gran maestro del cinema iraniano

Muore a 76 anni per un tumore il cineasta che ha rivelato al mondo la scuola cinematografica iraniana. Nella sua poetica fu fondamentale il neorealismo italiano. Dirigeva i bambini con la sensibilità di un De Sica e il suo sguardo rosselliniano mirava allo “splendore del vero”.

Addio ad Abbas Kiarostami maestro del cinema iraniano

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Il grande regista iraniano Abbas Kiarostami è morto a Parigi il 4 luglio, a 76 anni. Gli era stato diagnosticato nel marzo scorso un tumore all’intestino e si era già sottoposto a una serie di operazioni, l’ultima proprio in Francia. La notizia è stata data in prima battuta dall’Isna, agenzia di stampa iraniana e poi confermata da Le Monde.

Il cinema ha il dovere di essere arte”, disse una volta. Abbas Kiarostami aveva interpretato con coerenza questo imperativo, imponendosi tra gli anni Ottanta e Novanta come uno massimi autori del cinema mondiale. La sua grande reputazione fu essenziale per imporre all’attenzione internazionale la nuova cinematografia iraniana degli Amir Naderi, Mohsen Makhmalbaf e Jafar Panahi, che grazie a Kairostami trovò i finanziamenti per il suo primo film, Il palloncino bianco.

Nato a Teheran nel 1940, Abbas Kiarostami aveva trascorsi come pittore, grafico e autore di film pubblicitari. Poi, a partire dagli anni Settanta, aveva realizzato documentari pedagogici per conto del Kanun, l’Istituto per lo sviluppo intellettuale di giovani e adolescenti, fondato su iniziativa di Farah Diba, la moglie dello Scià di Persia Reza Pahlavi, che rimase in piedi anche dopo la proclamazione della Repubblica islamica degli integralisti religiosi guidati dall’ayatollah Khomeini. La permanenza nell’Istituto, che trattava soprattutto argomenti legati all’infanzia e all’adolescenza, consentì a Kiarostami di aggirare i severissimi divieti della censura, che s’indirizzavano soprattutto verso le tematiche sessuali.

Facendo di necessità virtù, quindi, Kiarostami maturò una notevole attenzione verso l’infanzia, dimostrando un notevole talento nel far recitare i bambini, uno degli elementi che hanno spesso spinto a parlare dell’influenza del neorealismo italiano sul nuovo cinema iraniano. I primissimi cortometraggi di Abbas Kiarostami, Il pane e la strada (1970) e La ricreazione (1972) parlano di bambini e delle piccole prove quotidiane che devono affrontare per tornare a casa. E un’altra opera giovanile, Il viaggiatore (1974), racconta di un ragazzino che, disposto a tutto pur di vedere la partita della nazionale a Teheran, arriva stanchissimo allo stadio e s’addormenta.

Di bambini e di faticosi percorsi obbligati parla il film che rivelò al pubblico occidentale Abbas Kiarostami, Dov’è la casa del mio amico? (1987), storia semplice e densissima di motivi di un ragazzino che per evitare una punizione a un compagno di scuola deve riportargli un quaderno, anche se non conosce l’indirizzo di casa. E il suo itinerario apparentemente caotico si trasforma in un incontro con i luoghi e un mondo di adulti ostili.

L’uso di scenari naturali, l’impiego di attori non professionisti e soprattutto di bambini, la capacità di filtrare attraverso il racconto una grande attenzione per le tematiche sociali e le vite degli umili: decisamente tutto fa pensare al neorealismo, nella versione del cinema dell’infanzia e del pedinamento di De Sica e in quello della ricerca dello “splendore del vero” di Rossellini. Una parentela che è forse più evidente sul piano della moralità dello sguardo che su quello strettamente estetico. Il cinema di Abbas Kiarostami infatti ha un ritmo più lento e meditativo rispetto al neorealismo e sul versante tematico si allarga ad altri contenuti. Come mostra Close up (1990), originale meditazione sul rapporto tra verità e finzione in cui Kiarostami racconta la vera vicenda di un truffatore che si era finto il regista Makhmalbaf, facendola interpretare all’autentico impostore. Una storia che è una riflessione sulla natura stessa del cinema e anche una metafora acutissima di un paese nel quale il diffuso disagio sociale si manifesta nel desiderio di essere altri da sé.

Il dittico successivo di Abbas Kiarostami, E la vita continua (1992) e Sotto gli ulivi (1994), costituisce un altro vertiginoso intreccio tra realtà e finzione. Nel primo film, dopo il vero terremoto in Iran un padre – alter ego del regista – si dirige insieme al figlio verso il villaggio dei ragazzini protagonisti di Dov’è la casa del mio amico, per vedere se sono ancora vivi. Sotto gli ulivi parte dalla storia del regista che sta girando E la vita continua per focalizzarsi su un muratore che, chiamato a recitare nel film, deve interpretare il ruolo del marito di una donna di cui è in realtà innamorato senza speranza. Sono due film nei quali diventa difficile distinguere il documentario dalla fiction e in cui la preoccupazione civile e morale si fonde senza zavorre intellettualistiche alla riflessione sulla natura e il potenziale di veridicità del cinema. Ulteriore variazione sul tema è Il vento ci porterà via (1999), Gran premio al festival di Venezia, in cui un gruppo di tecnici che si finge interessato a un tesoro arriva nelle montagne del Kurdistan per attendere la morte di una centenaria, così da poter filmare una particolare cerimonia del lutto. E l’argomento centrale, ancora una volta, è lo iato e l’interferenza tra la verità delle cose e la loro rappresentazione.

Interrogato sul rapporto tra realtà e finzione, Kiarostami una volta rispose che “non esiste questo rapporto, perché il mio cinema è tutta finzione costruita in base a una verità. Nei miei film non c’è un solo fotogramma di documentario, ma siccome li estraggo da una realtà, sembra che sia vero e documentato lì per lì”.

Abbas Kiarostami vinse la Palma d’oro al festival di Cannes con Il sapore della ciliegia (1997), storia di un uomo che per oscure ragioni cerca qualcuno che l’aiuti a suicidarsi. Il vagabondaggio nella periferia di Teheran e gli incontri con i possibili collaboratori consentono di sbozzare un ritratto dell’Iran contemporaneo. Un racconto fatto più di interrogativi che risposte che, come ha scritto Goffredo Fofi, “parte dalla morte, anzi dalla tentazione del suicidio, per cercare di tracciare pazientemente e incertamente nuovi sentieri di vita”.

Dopo il Duemila la produzione di Abbas Kiarostami si diradò: un documentario per conto dell’Onu (ABC Africa, 2001), Dieci (2002), un film interamente girato a bordo d’una automobile con due videocamere, un episodio di un film condiviso con Ermanno Olmi e Ken Loack (Tickets, 2005). Negli anni recenti dell’Iran di Ahmadinejad, infine, per Kiarostami era diventato sempre più difficile fare cinema, ragion per cui gli ultimi suoi film, Copia conforme (2010) e Qualcuno da amare (2012) furono girati rispettivamente in Italia e Giappone. Come ha dichiarato al Guardian il regista Asghar Farhadi, che era volato a Parigi per fargli visita: “Non è solo il mondo del cinema ad aver perso un grand’uomo; è il mondo intero ad aver perso una persona straordinaria”.