Fiore: i giovani amori dietro le sbarre di Claudio Giovannesi

Una storia d’amore sensibile e pudica tra due giovanissimi detenuti che evita, grazie alla cura documentaria della messa in scena, gli stereotipi da filone carcerario. Ma il regista non trova la giusta distanza dai protagonisti, che sembrano fin troppo puliti e “carini”.

Fiore giovani amori dietro le sbarre di Giovannesi

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Dopo l’apprezzato Alì ha gli occhi azzurri Claudio Giovannesi, anche documentarista e regista televisivo (ha diretto due episodi della seconda serie di Gomorra) torna al cinema con Fiore, passato anche alla Quinzaine a Cannes. È una storia di giovanissimi in bilico tra delinquenza e precarietà, protagonista la minorenne Daphne (Daphne Scoccia), finita dopo una rapina al carcere minorile. Lì conosce il detenuto Josh (Josciua Algeri) e se ne innamora. La ragazza ha complessi rapporti familiari, perché il padre (Valerio Mastandrea), appena uscito di galera, sta cercando di rifarsi una vita con una nuova compagna e non si sente pronto per assumersi la tutela della figlia. Così Daphne vive la quotidianità carceraria con qualche turbolenza, rapporti difficili con le altre detenute e il desiderio di vivere come una ragazza qualunque i propri sentimenti.

Naturalmente la dimensione costrittiva della prigione differenzia Fiore da una classica storia per adolescenti. Daphne e Josh sono sottoposti a ritmi e divieti della routine carceraria. Impossibilitati a vedersi, separati da sbarre, mura, la vigilanza delle guardie, per comunicare devono inviarsi lettere clandestine e approfittano persino della messa domenicale, occasione se non di contatto almeno di condivisione degli sguardi.

Fiore racconta quindi una storia di oppressione fisica ed emotiva, che finisce persino per amplificare la forza dei sentimenti: sia perché sofferenza e solitudine spingono naturalmente a trovare qualcuno cui appigliarsi, sia forse perché è proprio dell’adolescenza vivere l’amore con l’intensità totalizzante dell’inesperienza.

Giovannesi, autore della sceneggiatura di Fiore con Filippo Gravino e Antonella Lattanzi, ha compiuto un meticoloso lavoro di preparazione, frequentando il carcere minorile di Casal del Marmo per comprendere e restituire con realismo documentario le dinamiche della vita in prigione. Di qui la scelta del pedinamento, con la camera a mano quasi sempre incollata a Daphne: per tradurre con immediatezza visiva la dimensione asfittica, sia fisica che esistenziale, in cui è ingabbiata la protagonista.

Giovannesi non indugia nella violenza stereotipata da filone carcerario e i protagonisti sembrano giustamente più adolescenti sbandati e spavaldi che veri criminali. Fiore però confida nel fatto che l’ambientazione basti da sola a evitare le secche del film sentimentale per adolescenti, ma tanti elementi rimandano a quell’immaginario di gelosie e ripicche da amori giovanili. Il film, inoltre, è pregiudizialmente dalla parte dei ragazzi e impiega espedienti che mirano a presentarli allo spettatore in una luce troppo accomodante e benevola. Per cui le lettere dei due innamorati sono in un italiano perfettino e fasullo, inquadrature come quella di Daphne col cappuccio rosa sono programmaticamente carine ed è artefatta la poesia dei controluce e delle corse in spiaggia modello Truffaut.

Intendiamoci, Fiore non è privo di qualità: pensiamo ai personaggi delle due detenute napoletane, che sembrano essere solo le antagoniste di Daphne e a cui invece la sceneggiatura regala motivazioni umane e toccanti. Ma il film resta ingabbiato in questo tono conciliante, che ne depotenzia il realismo. E lascia qualche perplessità l’ultima sequenza, che ha anche il limite di assomigliare un po’ troppo al finale de Il laureato.