Veloce come il vento: le storie di vite a trecento all’ora con Stefano Accorsi

Il giovane Matteo Rovere firma un film ambientato nel mondo delle corse automobilistiche, ben girato, che ha poco da invidiare ai modelli americani. Bravi i due protagonisti. Ma la storia si snoda in maniera troppo programmatica e non ha il coraggio di infrangere le regole del genere.

Veloce come il vento con Stefano Accorsi

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Veloce come il vento è il terzo film da regista di Matteo Rovere: 34 anni, due lungometraggi alle spalle (Un gioco da ragazzi, Gli sfiorati) e un’intensa attività da produttore, dai Pills a Smetto quando voglio, una commedia brillante che ha rivelato una nuova generazione di registi che sa fare film di genere “all’americana” anche in Italia.

È questo il merito maggiore di Veloce come il vento, prodotto dalla Fandango di Domenico Procacci con Rai Cinema. Un film che prende di petto il sottogenere delle corse automobilistiche, che ha antecedenti nobilissimi (il primo capolavoro L’urlo della folla di Hawks) ed è perfetto, con le sue vite a trecento all’ora sempre sul punto di deragliare, per raccontare personaggi sul baratro, costretti a misurarsi con le proprie paure più recondite.

Il protagonista di Veloce come il vento, in realtà, è già andato fuori pista: Loris (Stefano Accorsi), detto il “ballerino”, ex campione di rally tossicomane che si ripresenta in famiglia quando il padre muore. A casa ritrova la sorella Giulia (l’esordiente Matilda De Angelis), diciassettenne di belle speranze che gareggia nel campionato GT, e un fratellino di 5 anni, Nico (Giulio Pugnaghi). La madre è scomparsa da anni, quindi Loris è l’unica possibilità dei due ragazzi per evitare l’affido. Poiché il padre per raggranellare i soldi per gareggiare s’era ipotecato la casa, Giulia è obbligata a vincere il campionato. E l’unico allenatore che può permettersi è il fratello maggiore, inaffidabile ma marchiato dal talento.

Veloce come il vento ha un’ottima qualità di riprese e messa in scena, senza molto da invidiare ai modelli statunitensi. Il film si cala bene in un’ambientazione italiana non di campioni celebrati ma di competizioni minori di provincia, con piccoli appassionati a caccia di grandi sogni che ostentano come Loris il loro accento emiliano-romagnolo.

Riconosciuti i pregi, va detto però che Rovere non ha l’originalità di un film cui pure è stato accostato, Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti, che segue le regole del genere per scavalcarle, grazie a un’ambientazione di periferia che ispessisce il realismo del racconto. Veloce come il vento, invece, resta ancorato a una narrazione canonica e la storia si snoda attraverso situazioni troppo programmatiche: la possibile rinascita di Loris in linea con l’idea molto americana della seconda occasione, l’addestramento alla corsa del pulcino Giulia come educazione alla vita, l’immancabile metafora del tuffo in piscina come percorso di rigenerazione per Loris e d’iniziazione per Nico. E c’è anche la corsa clandestina in cui Loris può misurare la sua tensione tra voglia di rinascita, spirito di sacrificio e cupio dissolvi.

Tra i meriti di Veloce come il vento c’è il gioco d’attori tra Accorsi, coraggiosamente sgradevole, e la giovane Matilda De Angelis, di semplice e fragile fierezza. Ma il film non segue la lezione di Loris, che alla sorella insegna che per vincere bisogna forzare le regole, tagliare le curve e slittare sui cordoli. E alla fine il film si muove diligentemente lungo i binari del genere, senza apportarvi un contributo davvero personale.
https://youtu.be/gBye1KgIblk