Checco Zalone: 22 milioni in tre giorni. Cinque ragioni per un trionfo

Nel solo weekend di Capodanno "Quo vado?" è stato visto da tre milioni di italiani. Un risultato senza precedenti, che ha polverizzato qualunque record. Ma qual è la ricetta del successo di Checco Zalone?

Checco Zalone le ragioni del successo

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Premessa: non lo sa nessuno perché Checco Zalone sta incassando al ritmo di 7 milioni di euro al giorno. Con i risultati di domenica siamo arrivati a oltre 22 milioni di euro. Se ci fosse un attore, regista, sceneggiatore capace di individuare con sicurezza le ragioni del successo, i produttori lo assolderebbero costringendolo a ripetere la formula fino alla nausea. Che è poi quello che si fa da sempre, in Italia col cinepanettone, ora moribondo dopo trent’anni di (dis)onorata carriera, negli Stati Uniti con ogni possibile remake-reeboot-sequel-prequel-spinoff di qualsiasi film abbia fatto centro al botteghino (stringi stringi, il nuovo Star Wars, buono per carità, cos’altro sarebbe?).

Credo che i motivi di tutta questa grazia siano ignoti agli stessi Zalone, il regista Nunziante, il produttore Valsecchi, che nonostante gli incassi stratosferici dei film precedenti, 43 milioni Che bella giornata e 52 Sole a catinelle, avevano solo sfiorato la soglia dei 3 milioni al giorno. Certo, dice qualcuno, se un film lo spalmi su 1300 sale il pubblico che altro può fare? Beh, volendo potrebbe restare a casa. E invece alla profetica domanda di Zalone, “Quo vado?”, 3 milioni di spettatori – finora – hanno risposto compatti: al cinema.

Perché? Tutti si stanno scervellando per capirlo, buttandola soprattutto in politica. Di volta in volta Zalone diventa: l’uomo che sfida l’ipocrisia radical chic, confermata dalla comparsata contropelo di Checco nel salotto buono di Fabio Fazio; il simbolo di un cinema non sovvenzionato che accetta la sfida del mercato (altra polemica contro i suddetti salotti, che solitamente raccomandano cineasti foraggiati dallo Stato per i loro film di interesse culturale che non fanno una lira); “un antidoto all’antipolitica”, e quindi antigrillino; oppure, a scelta, un renziano o anti-renziano.

Non che queste cose non siano ravvisabili in Zalone, soprattutto in quest’ultimo film che è il suo più politico, nel quale alla nostalgia canaglia da Prima Repubblica da cui è affetto un sottobosco di fannulloni egoisti a tempo indeterminato si assestano colpi non da poco e dove, se c’è uno sguardo comprensivo, è verso quei nuovi italiani che si mettono in gioco e girano il mondo alla ricerca di un lavoro e di se stessi.

Dunque, credo ci siano alcuni elementi che, se non il successo, spiegano almeno l’importanza del suo cinema e il perché riesca a intercettare alcune fette di pubblico. Tra cui proprio i succitati radical chic, che ormai non si vergognano di ammettere di vedere Zalone, mentre non avrebbero fatto lo stesso, non dico col vituperato cinepanettone ma, che so, con Pieraccioni (un altro che, ai suoi tempi, richiamava spettatori a vagonate).

Eccole allora, cinque ragioni più una che rendono Zalone il fenomeno che è.

1. Cattiveria

Zalone è cattivo. La commedia all’italiana, al tempo in cui il nostro cinema era sintonizzato con gli spettatori, sapeva essere cattiva. E non semplicemente contro qualcuno (per quello bastano i cinepanettoni, nei quali la comicità quasi sempre origina dalla discriminazione verso un altro, più debole, di cui si ride) ma contro se stessa. Come disse una volta Giuseppe Marotta, Alberto Sordi ne La grande guerra era grandissimo perché “dimenticava di volersi bene”. E questa è la ferocia che Zalone sa mettere nei suoi film: ricordiamo che il cantante Checco in Cado dalle nubi ottiene un grande successo perché è “meravigliosamente mediocre”. E che possiamo dire, in Quo vado?, dell’italiano del sud mammista, infingardo e spaventato dal mondo? Zalone attacca tutti, con spirito politicamente scorretto: e in cima alla lista mette se stesso e quello che la sua figura di italiano medio rappresenta.

2. Realtà

Zalone non ha paura della realtà, anzi la cerca e la racconta. Basta fare un paragone con l’ultimo film di Alessandro Siani, Si accettano miracoli: nel quale l’attore napoletano mette in scena una sorta di presepe in un imprecisato paesino campano baciato dal sole, nel quale tutti sembrano sbucati fuori da una pellicola di cento o mille anni prima. Un mondo anestetizzato e privo di qualunque seppur timidissimo riferimento alla contemporaneità. Siani, insomma, si ritrae spaventato davanti al proprio tempo e si rifugia in un altrove all’insegna di un vuoto estenuante, pensando che il pubblico abbia voglia solo di disimpegno. Ma lui ha incassato in tutto 15 milioni, per carità mica poco, ma è la cifra che Zalone ha fatto in due giorni. Questo vuol dire che gli spettatori, che reputiamo sempre ignoranti e superficiali, chiedono qualcosa di più, film in cui riflettersi e con cui riflettere. Ovviamente vogliono divertirsi, ma preferiscono una comicità corposa, incarnata in tipi credibili e verosimili che gli restituiscono qualcosa di se stessi. Quello che fa Zalone, con il suo paese reale che fa reagire con la maschera Checco.

3. Dopo Berlusconi

C’è un’Italia oltre Berlusconi. Altro che Renato Brunetta, il quale disse che Zalone “esprime in pieno la filosofia positiva, generosa, anticomunista, moderata, serena di Berlusconi”. Zalone invece ha capito che un’epoca è finita, che l’Italia, nel bene e nel male, si è spostata oltre il totem attraverso il quale il paese si è raccontato per un ventennio. Prendiamo il caso Albanese, nella sua straordinaria incarnazione di Cetto La Qualunque: una maschera di cui Checco Zalone ha sicuramente tenuto conto, persino più cattiva della sua, esemplata su un paese a forma di Cavaliere. Ma è un ritratto dell’Italia dell’altro ieri, in cui si parla di politica, corruzione e pilu nei termini dell’era del satrapo di Arcore. Anche per questo al cinema ha funzionato fino a un certo punto. Perché gli italiani si sono stufati e cercano altro.

E quindi in Quo vado? Zalone salta a piè pari l’apparentemente inaggirabile convitato di pietra Berlusconi: mette tra parentesi il suo ventennio e parla di Prima Repubblica, che c’era prima di lui, e di una possibile Seconda, di cui si vedono i segni in una categoria di italiani nuovi, orgogliosi, poliglotti, palesemente migliori, Zalone lo sa, della sua maschera infingarda, i quali non sanno più che farsene di un dibattito incardinato sul Cavaliere (e nemmeno su Renzi, a cui Zalone assesta qualche colpo nella sua già epocale canzone La Prima Repubblica). Togliendo di mezzo Berlusconi, insomma, fa capolino una parola che, ossessionati per due decenni dalla narrazione di un eterno presente, c’eravamo dimenticati pure come si scrivesse: futuro.

4. Ecumenismo

Zalone è scaltro e dà un colpo al cerchio e uno alla botte. Snocciola tutti i difetti impresentabili degli italiani e in Quo vado? li bacchetta mandandoli in Norvegia per un corso accelerato di civiltà. Poi però gli dà lo zuccherino, ne blandisce l’insopprimibile orgoglio ricordando che certe cose le sanno fare solo loro, come quando Checco va a mangiare delle orrende fettuccine preparate da un cuoco norvegese e, inviperito, smonta l’insegna “ristorante italiano” di cui lo chef nordico si fregia indegnamente. Noi italiani ci andiamo a nozze con questi piccoli dettagli d’autocompiacimento.

Come ha detto benissimo Mario Sesti, Zalone “è la democrazia cristiana che si fa cinema comico”, che mentre ci critica ci alliscia il pelo. Ma la ragione di questo comportamento ambivalente è forse anche un’altra, che affonda nel dna degli italiani del Sud. I quali tra di loro possono dire le più atroci nefandezze sul meridione, ma guai se uno “straniero”, vale a dire uno da Roma in su, si permette una nota di biasimo. Il pugliese Zalone fa un po’ la stessa cosa: nei suoi film lui può dircene di tutti i colori, ma non appena si profila qualcuno a farci la morale sulla nostra inciviltà, riemerge lo sciovinismo difensivo del meridionale, che inorgoglisce uno spettatore che “non si sente italiano, ma per fortuna o purtroppo lo è”. Perché pur con tutti i nostri difetti, “siamo una squadra fortissimi”.

5. Radici

La forza delle radici. È il corollario del complesso del meridionale di cui sopra. Zalone e il suo fido Nunziante sono rimasti a Bari, senza trasferirsi nelle capitali dell’industria cinematografica italiana. Né Roma né Milano: perché i due hanno bisogno di quel cordone ombelicale con la propria terra per restare creativi a modo loro. Senza sottostare alle regole e ai compromessi contro i quali sbatterebbero il grugno una volta arrivati nei centri del potere. Perciò per Zalone è perfetto un produttore sui generis come Valsecchi, che è potente ma non piace troppo all’establishment che distribuisce patenti di autorialità e premi (con la sua TaoDue realizza tutte quelle serie tv che nei salotti buoni fanno inorridire). Quindi Zalone se ne resta a casa: e in Quo vado? fa pure recitare altre due generazioni di pugliesi, incarnate da Lino Banfi e Maurizio Micheli. Per pagare con onestà un debito di riconoscenza e per esplicitare orgogliosamente una fiera alterità glocal, che riesce ad essere universale perché ostinatamente radicata.

A proposito, e per finire: Zalone fa ridere. Un dettaglio questo che non credo abbia bisogno di spiegazioni. Ed è ovviamente il più importante di tutti. Il segreto di Pulcinella.