Alaska: l’amore è un destino nel nuovo film con Elio Germano

Claudio Cupellini firma un melodramma con tutti gli ingredienti del genere: l’amour fou, due personaggi che s’inseguono senza prendersi mai, il sogno irraggiungibile di una vita felice. Un film lontano dai prodotti medi del cinema italiano. Squilibrato ed eccessivo: ma intrigante.

Alaska Cupellini dirige Elio Germano

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Nel panorama del cinema italiano di compitini realisti, Alaska di Claudio Cupellini è destinato ad appassionare chi ama le storie spericolate che sfidano l’inverosimiglianza e hanno a cuore la forza dei generi, qui il melodramma.

Perché Alaska, appunto, è un melò spudorato con venature noir: e nel melodramma a farla da padrone è il destino, che risucchia i personaggi, vittime più che attori dei loro sentimenti. Questo è Fausto (Elio Germano), cameriere italiano d’un grand hotel parigino che, per farsi bello con l’aspirante fotomodella Nadine (Astrid Bergès Frisbey), la porta nella suite più esclusiva dell’albergo: purtroppo l’ospite li sorprende e vuole farlo licenziare, lui lo picchia e finisce in galera per due anni. Germano è bravo a restituire un protagonista trascinato da pulsioni incontrollabili – rabbia, gelosia, ambizione –, perché il melodramma non tratteggia psicologie, ma dispone una tastiera di caratteristiche emotive dalle quali il personaggio non può deflettere.

Naturalmente non può esserci melò senza amour fou: benché il loro rapporto sia durato l’alba d’un mattino, in galera Fausto non fa che pensare a Nadine, la quale il giorno del suo rilascio è lì, ad aspettarlo, ormai stabilmente modella a Milano. La loro storia ricomincia, febbrile, travolgente, apparentemente felice. Fino a quando Fausto, stanco di lavoretti senza futuro, entra in società con Sandro (Valerio Binasco), e insieme rilevano una discoteca, l’Alaska. Da qui la vicenda si dipana verso ulteriori e incredibili sviluppi, con Fausto che trova il successo mentre Nadine lo perde. Due vite che non seguono mai lo stesso ritmo e forse proprio per questo sempre furiosamente intrecciate, prigioniere di una passione granitica che travolge indifferente tutto e tutti.

Assunta coerentemente l’implausibilità logica propria del genere, Cupellini poi è capace di notevoli finezze di scrittura in Alaska, che dicono di più sulla realtà di tanti film piattamente realistici. Come la sequenza sui titoli di testa, in cui mostra il casting delle fotomodelle e inquadra le ragazze solo attraverso dettagli, senza volto, per rendere sbrigativamente e senza moralismi posticci l’idea che la moda è un mondo in cui le donne sono semplici corpi svuotati d’identità. O ancora l’incontro fuori dal carcere: Nadine stavolta parla italiano, mentre Fausto continua a risponderle in francese, i personaggi cioè, parlano sempre due lingue diverse, destinati a non capirsi mai e per questo obbligati ad attrarsi e respingersi. Come vuole l’amour fou del “né con te né senza di te”.

Germano è convincente, anche nelle forzature delle scene madri, che in questo contesto funzionano, mentre forse la Frisbey è troppo poco dark lady. Ma su tutti domina Binasco, uno sbandato con sogni di grandeur, perfettamente intonato nelle sue pose dell’uomo che gioca con la vita fino ad autodistruggersi, con un romanticismo dissimulato che, forse, coglie un elemento autentico della milanesità, al fondo sentimentale e malinconica.

Alaska è squilibrato e imperfetto, a tratti tirato per le lunghe: ma, soprattutto se paragonato alla composta monotonia del nostro cinema medio, è un film a cui si finisce per affezionarsi.