Pixels: il mondo salvato da Adam Sandler

Pac-Man e Donkey Kong attaccano la Terra. Solo Adam Sandler, campione di videogiochi anni Ottanta, può salvarla. "Pixels" è una paccottiglia zeppa di riferimenti alla cultura pop per quarantenni nostalgici. Oppure è un'ardita riflessione filosofica sulla realtà virtuale.

Pixels il mondo salvato da Adam Sandler

INTERAZIONI: 8

L’adolescente Sam Brenner perde nel 1982 la finale del campionato mondiale di videogiochi, battuto dal volgare Eddie Plant. La sconfitta gli condiziona l’intera esistenza e così, una volta cresciuto, è diventato un modesto installatore di home theatre. Ma il destino ha in serbo per lui una sorpresa: gli alieni, trovata su una sonda spaziale una registrazione con videogiochi anni Ottanta e filmati d’epoca, l’hanno scambiata per una dichiarazione di guerra. Perciò invadono la Terra assumendo le fattezze dei personaggi dei videogiochi, Pac-Man, Donkey Kong, Centipede. I militari non sono attrezzati per questa guerra virtuale: allora il presidente degli Stati Uniti, amico d’infanzia di Sam (da adulto Adam Sandler) lo chiama per salvare il pianeta, ricomponendo il vecchio team di nerd, compreso l’arcinemico Plant (Peter Dinklage).

Più che un omaggio vintage agli anni Ottanta Pixels sembra un fossile estratto da quel decennio: a partire dal regista Chris Columbus, arrivato direttamente da quel tempo e quell’immaginario, al quale contribuì firmando l’ultima propaggine dell’epoca, Mamma, ho perso l’aereo, anno 1990.

Il film si basa su un geniale video del regista d’animazione Patrick Jean, che inscena una New York attaccata dai videogiochi i quali, qualunque cosa colpiscono, la frantumano e trasformano in grossi cubi che corrispondono ai pixel, l’unità di misura della grafica digitale. Partito da quella suggestione, Columbus l’arricchisce di riferimenti che faranno scattare un divertito effetto nostalgia nei quarantenni. I quali, in un film che assomiglia a una soffitta colma di oggetti di modernariato, ritroveranno i miti della loro adolescenza, da Dan Ayrkroyd, presente in un cameo, ai videogiochi arcade. Alcune gag colpiscono nel segno: gli alieni mandano i loro messaggi usando filmati anni Ottanta ridoppiati, per cui le minacce di guerra sono lanciate da Ronald Reagan (ci può stare) e una Madonna modello “like a virgin”; o anche, con effetti francamente irresistibili, da Ricardo Montalbán e Tattoo, protagonisti del più zuccheroso e innocuo telefilm dell’epoca, Fantasilandia.

Anche la struttura narrativa è esemplata su quegli anni: l’idea del gruppo di reietti che salva il mondo viene chiaramente da Ghostbusters, di cui però manca la vena anarcoide e demenziale – aggettivo tipico del cinema ottantesco –, che possedeva Bill Murray ma non Adam Sandler.

A prima vista Pixels è una paccottiglia zeppa di riferimenti alla cultura pop, che cita qualunque cosa per provocare l’immedesimazione emotiva d’una generazione di adolescenti invecchiati male. Però nel guardare un mondo trasformato in pixel digitali, a misura di videogiocatori incapaci di gestire la realtà e a proprio agio solo con la sfera virtuale, viene da pensare che questo film sia una bizzarra traduzione in immagini del pensiero di Jean Baudrillard. Il filosofo che ha teorizzato la trasformazione della realtà in simulacro, dove non esistono più cose concrete, ma solo i segni che le hanno sostituite. Un’iperrealtà disegnata dalla tecnologia, che predispone esperienze più eccitanti e coinvolgenti della vecchia e soporifera realtà. Un mondo digitale fatto di immagini con cui divertirsi e intrattenersi: chiusi dentro il videogioco, ormai l’unica cosa che esiste davvero.

https://youtu.be/ou8vRWTSsJo