Terminator Genisys: con Schwarzenegger ritorna il robot dal volto (post)umano

Il quinto episodio della saga apre una nuova trilogia, che riscrive la storia dall’inizio. Al centro c’è sempre Schwarzenegger, il terminator buono pronto a sacrificarsi per la salvezza del mondo. Un film a metà tra fantascienza e action movie, che ricapitola paure e desideri del nuovo millennio.

Terminator Genisys il ritorno di Schwarzenegger

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Terminator, insieme a Ritorno al futuro, è la saga che negli anni Ottanta ha plasmato una narrazione incentrata sui salti temporali, nella quale il tempo non è mai scritto una volta per tutte. Nulla è davvero definito: passato, presente e futuro sono perennemente modificabili e manipolabili: proprio quello che fa Terminator Genisys – quinto episodio della serie, prima parte di un’annunciata trilogia –, guazzabuglio fin troppo sfrenato di salti cronologici tra 2029, 1984, 2017, un film che potrebbe essere, a scelta, prequel, sequel o reboot.

Struttura della storia e protagonisti sono quelli di sempre, ma cambiano i singoli avvenimenti. Dopo l’apocalisse del 1997 causata dal network Skynet, i resistenti guidati da John Connor (Jason Clarke) nel 2029 sconfiggono le macchine. Queste mandano nel 1984 un terminator per uccidere Sarah Connor (Emilia Clarke) prima che dia alla luce John, che a sua volta invia a proteggerla il suo braccio destro, Kyle Reese (Jai Courtney).

Nel 1984 Kyle trova una Sarah diversa dal previsto: non una donnicciola indifesa, ma una guerriera pronta a combattere insieme a un Terminator guardiano (Arnold Schwarzenegger), precedentemente inviato nel 1973 per proteggerla. Sarah e Kyle vanno nel 2017 perché, in base a percezioni vissute da Kyle nel viaggio a ritroso nel tempo, adesso sarà quello l’anno dell’apocalisse, mascherata da lancio del sistema operativo Genisys, copertura di Skynet. Nel 2017 li attende il Terminator guardiano: insieme sfidano il nemico, che ora ha le fattezze di un John Connor passato al lato oscuro.

Il film di Alan Taylor, rimbalzando tra le epoche, si concede colpi di scena sul filo del paradosso: personaggi che cambiano schieramento tra un’epoca e l’altra (John) e un duello in cui Schwarzenegger lotta contro se stesso, contemporaneamente Terminator guardiano invecchiato e Terminator nemico giovane (uno Schwarzy ricreato digitalmente).

Nonostante il tono scanzonato da action movie, Terminator Genisys sembra un catalogo involontario di ansie e desideri della nostra epoca. La fantascienza è il genere ideale per proiettare angosce e speranze travestite da innocuo giocattolo spettacolare. Non manca nulla: la paura millenaristica per l’imminente fine del mondo, con tanto di minaccioso conto alla rovescia; un malsano desiderio (auto)distruttivo nelle scene dell’apocalisse del 1997 (gli eroi fanno di tutto per evitarla, il film la mostra con compiacimento); la paura di invecchiare (nonostate i salti temporali gli eroi restano perennemente giovani e non si fanno mai un graffio; la tecnologia come minaccia (il nemico è un pervasivo sistema operativo onnisciente); il tramonto dei sentimenti (Sarah e Kyle s’innamorano d’una passione quasi asettica); la pervasività della nostalgia, palpabile nelle scene che ricostruiscono con commossa filologia il 1984, come se le inquadrature panoramiche d’una vecchia Los Angeles dessero conto d’un Eden perduto e irraggiungibile, di cui l’immaginario cinematografico restituisce il brivido.

Il paradosso più grande di Terminator Genisys è che l’unico essere “umano” rimasto è il Terminator-Schwarzenegger: solo lui invecchia e si fa male (“sono vecchio ma non obsoleto” ribatte con orgoglio a Kyle), solo per lui palpita il cuore di Sarah, che spara impassibile al figlio John, ma è tenerissima con la macchina che chiama Papà. E gli spettatori si preoccupano solo del suo destino: anche perché lo incarna un attore dalla fisicità metallica, che già trent’anni fa ha indicato la strada di un nuovo modello di identità, in cui tecnologia e umanità convivono ibridate. Potrebbe essere il futuro: e allora il pubblico è in ansia per il personaggio che interpreta quel che teme, o forse spera, di diventare.