Mad Max Fury Road: il ritorno del guerriero della strada

Dopo trent’anni riappare l’eroe creato da George Miller, stavolta interpretato da Tom Hardy. Il regista ricrea lo scenario post-apocalittico tipico della serie, aggiornandolo ai nostri tempi. E accanto al protagonista compare Charlize Theron, a guidare una rivolta tutta al femminile.

Mad Max Fury Road guerriero della strada

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L’aggettivo “post-apocalittico” non esisterebbe senza George Miller. Il regista australiano della trilogia di Mad Max ha creato all’inizio degli anni Ottanta uno scenario neomedievale entrato nell’immaginario comune, dominato dalle automobili e pochi sopravvissuti alla disperata ricerca di benzina. Una distopia disturbante, dove tutto ciò che esiste è un oggetto ritrovato che ha cambiato uso; e il futuro assume contorni claudicanti, che funzionano da monito per un presente, il nostro, ben poco rassicurante.

Grande era la curiosità, quindi, per il quarto episodio che il regista ha realizzato a ben trent’anni di distanza: Mad Max Fury Road, con Tom Hardy al posto dell’icona Mel Gibson, con accanto un’inedita Charlize Theron, che è la vera protagonista. L’esito è all’altezza delle aspettative, per un film sì ipercinetico e ricco di effetti speciali, ma in grado di comunicare, attraverso una messa in scena di densissima fisicità, un senso di angoscia autentico.

Nella Cittadella vige la legge di Immortan Joe (Hugh Keays-Byrne), autoproclamatosi divinità, cui tutti tributano una fanatica obbedienza religiosa perché è il padrone dell’acqua e di tutti gli scarsi beni primari. L’unica a sottrarsi al suo volere è Furiosa (Theron), che trasforma una missione in una fuga verso la terra promessa, portando con sé le giovanissime mogli dell’imperatore, che lui violenta e ingravida alla ricerca dell’erede sano (i suoi invece figli sono un colosso con l’intelligenza di un bambino e un nano). Durante il viaggio Furiosa s’imbatte nel solitario Mad Max, che si unisce al gruppo, anche se la ribellione resta tutta nel segno del femminile.

Il film è un unico, lunghissimo inseguimento, ambientato nel suggestivo deserto della Namibia. Pur sotto il peso di un’azione preponderante, Miller riesce a costruire il suo personale discorso sulla contemporaneità. Merito dell’impianto di base della storia, che ritrae un mondo povero, dominato dalla scarsità, in cui è indispensabile riciclare qualunque cosa, il che restituisce alla fuga disperata un senso d’insicurezza palpabile. E povere sono le macchine, automobili rattoppate con pezzi di risulta, rugginose e ansimanti, lontane anni luce dalla tecnologia levigata dei film di fantascienza hollywoodiani, nei quali il pericolo è stemperato dal lusso tranquillizzante della messa in scena.

Quello di Mad Max è un universo sempre sul punto di collassare, che ogni tanto scompare inghiottito da maestose tempeste di sabbia o da notti grigie, che sottraggono i colori alla realtà. Con immagini di una sbrigliata fantasia artigianale che si stagliano nella memoria: Mad Max incatenato al cofano della macchina mentre il pilota dell’auto gli succhia il sangue per rigenerarsi, il fanatico chitarrista cieco appeso al camion che suona la carica come un trombettista di cavalleria, l’esercito d’invasati rasati, scarificati e coperti di biacca, la droga metallizzata che i guerrieri si spruzzano sul volto per acquistare coraggio.

L’immaginario di Miller resta all’altezza dei tempi: una fantascienza che ha il passo della tragedia, con al centro i legami di sangue (la famiglia dell’imperatore, repellente e deforme, ricorda quella del Dune lynchiano) e l’utopia, ferocemente perseguita, di un umanesimo possibile.