This must be the place: stasera in tv il film di Sorrentino con Sean Penn

Oggi esce nei cinema l’attesissimo "Youth". E in tv ripassano tutti i film del regista. Tra questi, alle 21 su Iris, quello in cui il grande attore americano interpreta una rockstar in pensione alla ricerca di se stessa. Un’opera che ha lo stile tipico dell’autore napoletano: con i suoi pregi e difetti.

This must be the place di Sorrentino con Sean Penn

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È la settimana di Paolo Sorrentino. Esce oggi in contemporanea con Cannes Youth, l’attesissimo nuovo film, perciò in tv ripassano le sue opere precedenti, compresa La grande bellezza. E c’è anche il road movie americano, This must be the place, in onda stasera alle 21 su Iris.

Cheyenne (Sean Penn) è una rockstar benestante in pensione, con look alla Robert Smith dei Cure, che conduce la vita meno maledetta possibile: sposato stabilmente (e fedele alla moglie, Frances McDormand), fa la spesa al supermercato e ogni settimana visita la tomba di due ragazzini suicidatisi vent’anni prima, ispirati dalle sue canzoni depressive, morti di cui si sente ancora in colpa. Il tedioso tran tran è interrotto dal decesso del padre, con cui non parlava da trent’anni, che lo porta – lui vive in Irlanda – a fare un viaggio negli Stati Uniti.

Una volta a New York viene a sapere che il genitore, ebreo deportato ad Auschwitz durante il secondo conflitto, era sulle tracce del suo aguzzino nel campo di concentramento. Cheyenne decide di concludere la caccia all’uomo: e questo lo porta nel cuore dell’America alla ricerca, è evidente, di due persone, un vecchissimo nazista e se stesso (benché, quando la moglie glielo chiede, lui ironizzi dicendo che non è mica andato in India).

Il film ha la smagliante levigatezza formale del cinema di Sorrentino, fatta di lenti movimenti di macchina, salti dai campi lunghi a primissimi piani, le giustapposizioni cromatiche tra le inquadrature, il gusto per le epifanie (le scene al ralenti; l’apparizione del bufalo, simile a quella della giraffa ne La grande bellezza).

Nonostante i dialoghi fitti e letterari, si ha la sensazione che il film potrebbe essere anche muto senza perdere nulla del suo senso, tale è la fiducia che Sorrentino ripone nella capacità dell’immagine di esprimere tutto l’essenziale. La stessa del cacciatore di nazisti (Judd Hirsch), che mostra l’orrore del lager agli studenti solo attraverso le fotografie, senza il supporto di alcuna spiegazione. Questa fiducia eccessiva trasforma This must be the place in un’opera ieratica, composta solo di scene madri figurativamente impeccabili, tableaux vivants di una pinacoteca in cui tutto è sempre memorabile.

I lampi visivi dovrebbero offrire un’esposizione puntuale degli argomenti trattati nel film. Che però sono tantissimi: a citarli alla rinfusa almeno il successo, la morte, il rapporto tra padri e figli, l’ebraismo, l’Olocausto, l’identità americana. Sulla quale, tanto per dare un esempio dello stile espositivo di Sorrentino, basta mostrare la passione statunitense per il gigantismo (il più grande pistacchio del mondo) e scorci della provincia americana tra nitore iperrealista e paesaggi sconfinati (già visti tante volte, da David Lynch al True stories di David Byrne, interprete di se stesso in This must be the place) per trarre attendibili conclusioni sul carattere di questo paese.

Una pretesa semplicistica: come è semplicistico pensare che basti un atto di ritorsione contro l’anziano nazista per fargli provare la stessa umiliazione vissuta da un ebreo in un campo di concentramento. Una sequenza di un’ingenuità che lascia francamente perplessi.