I dieci grandi di Hollywood che non hanno mai vinto l’Oscar (seconda parte)

In attesa del 28 febbraio, notte degli Oscar 2016, ripercorriamo una delle pagine meno gloriose della storia del premio. Quella di dieci straordinari attori, attrici e registi che, incredibilmente, non hanno ricevuto la statuetta. Una lista imbarazzante, piena di stelle di prima grandezza.

dieci artisti non hanno vinto premio Oscar

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Dopo la vicenda delle prime cinque stelle di Hollywood, raccontata qui, ecco la seconda parte della lista di attori, attrici e registi a cui non è mai stato assegnato il premio Oscar. Artisti di prima grandezza che per le ragioni più svariate, sottovalutazioni, dimenticanze, sfortuna non hanno mai potuto alzare l’ambita statuetta.

Se non quella, talvolta, dell’Oscar alla carriera, inaccettabile contentino che l’Academy of Motion Picture Arts and Sciences ha spesso assegnato più per tacitare la propria cattiva coscienza e l’opinione pubblica che per riparare il palese torto. Con effetti peggiori del danno causato.

Dopo le storie di Charlie Chaplin, Marlene Dietrich, Cary Grant, Stanley Kubrick e Spike Lee, è la volta dei secondi magnifici cinque.

6. Greta Garbo

Quattro le nomination e nessun Oscar per l’attrice che è sinonimo stesso della parola “diva”, un volto, come disse un ispirato Roland Barthes, “di neve e solitudine”. Le prime due nomination le ebbe nello stesso anno, il 1930, per Anna Christie e Romanzo, ma nell’occasione ebbe la meglio Norma Shearer, moglie del potente produttore Irving Thalberg, tra i fondatori dell’Academy. Nel 1937 fu la volta della nomination per Margherita Gautier, ma il premio andò a Luise Rainer. L’ultima opportunità nel 1939, per Ninotchka: “Garbo laughs!” “la Garbo ride”, recitava l’indovinata frase di lancio della stupefacente commedia di Ernst Lubitsch, che reinventò la Divina in un ruolo brillante. Ma nemmeno questo bastò, di fronte alla corazzata Via col vento e il premio lo ricevette Vivien Leigh per la parte di Rossella O’Hara.

Dopo, la Garbo girò un solo altro film e poi si ritirò, a soli 36 anni, scomparendo letteralmente dalla vita pubblica. Quindi l’Academy non ebbe occasione per porre rimedio all’incredibile omissione. Poté solo ovviare con l’Oscar alla carriera, nel 1954, “per le sue indimenticabili performance sullo schermo”.

Ma naturalmente la Garbo, irraggiungibile da anni, non avrebbe mai accettato di presenziare alla cerimonia. Provò a convincerla il regista Jean Negulesco, producer dello show nonché proprietario della villa di Beverly Hills in cui la diva aveva abitato ai tempi dei fasti hollywoodiani. Non ci fu nulla da fare, la Garbo rifiutò anche l’ipotesi di uno shooting fotografico nella sua abitazione newyorkese. Quindi la sera della cerimonia fu proiettato uno spezzone di Margherita Gautier e il premio venne ritirato a suo nome dall’attrice Nancy Kelly. La statuetta le venne spedita per posta.

7. Howard Hawks

Negli anni Cinquanta i giovani turchi dei “Cahiers du Cinéma“, Truffaut, Godard e compagni si inventarono la “politica degli autori”, che rivoluzionò la critica cinematografica sostenendo, tra l’altro, che un gruppo di registi hollywoodiani apparentemente commerciali erano in realtà dei grandi artisti, primi fra tutti Alfred Hitchcock e Howard Hawks.

Quest’ultimo aveva rivoluzionato la commedia, con titoli come Ventesimo secolo e La signora del venerdì; aveva reso adulto il gangster movie con Scarface, e il western con Il fiume rosso (quando John Ford vide l’interpretazione di John Wayne commentò: “Non avevo mai saputo che quel figlio di puttana fosse in grado di recitare!”). Ma la cosa più importante è che i suoi film facevano sistematicamente centro al botteghino, anche perché Hawks, che i film se li produceva, era attentissimo al gradimento del pubblico.

Nonostante questo, gli Oscar lo hanno sempre snobbato, a parte il contentino del riconoscimento alla carriera nel 1975. Nessun complotto. Più probabilmente una ragione banale: gli Oscar li vincono i film che sbandierano un messaggio, quindi Hawks cascava male, con le sue scatenate commedie tutto ritmo o film d’avventura spicci e senza lezioni esplicite. Ma non se l’è mai presa a male. Anzi, quando il critico Joseph McBride gli chiese se gli dispiacesse di non aver mai vinto la statuetta, Hawks ribatté: “Nemmeno un po’. Non sono d’accordo con la maggior parte delle selezioni dell’Oscar, questo è forse il motivo per cui non mi dà fastidio”. Insomma, per lui non essere tra i prescelti era diventato un punto d’onore.

8. Alfred Hitchcock

Cinque nomination per la regia, uno per il miglior film (Il sospetto) e nemmeno un Oscar. Solo un contentino nel 1968, l’Irving G. Thalberg Memorial Award, una categoria assegnata saltuariamente per premiare “produttori creativi, i cui lavori riflettono un livello costantemente elevato delle produzioni cinematografiche”. Come è stato possibile che non sia stato riconosciuto l’enorme contributo di uno degli autori più celebrati e di successo dell’intera storia di Hollywood?

Certo, Hitchcock ha quasi sempre dovuto vedersela con pesi massimi: il John Ford di Furore (1940); Leo McCarey con La mia via (1944); un paio di volte ha capitolato di fronte al sommo Billy Wilder di Giorni perduti (1945) e de L’appartamento (1960); e quando ebbe la nomination per La finestra sul cortile (1954), fu costretto a misurarsi con Fronte del porto, capolavoro di Elia Kazan con un Brando iperemozionale in una classica interpretazione da Actor’s studio, come all’epoca piaceva tanto all’Academy.

Insomma tanta sfortuna. In più, forse, il pregiudizio legato al fatto che sir Alfred era ritenuto un regista di thriller: quindi uno specialista di film di genere, che non potevano vedersela alla pari con i drammi che a Los Angeles, da sempre, sono considerati gli unici veri film d’autore. Pare che Hitchcock soffrisse di questo misconoscimento: per tutta risposta, quando ricevette il Thalberg Award, il suo discorso di ringraziamento si limitò a un laconico “Thank you”.

9. Orson Welles

Dopo La guerra dei mondi, il radiodramma che fece credere a tanti americani che gli alieni stessero invadendo gli Stati Uniti, Hollywood era disposta a fare ponti d’oro a Orson Welles. La sua carriera cinematografica cominciò nel migliore dei modi: per il suo primo film, il leggendario Quarto potere, girato a soli 25 anni, all’attore e regista fu concessa un’assoluta libertà d’azione, impensabile per l’epoca. All’uscita il film piacque poco al pubblico, ma gli addetti ai lavori ne riconobbero l’innovatività: per cui agli Oscar del 1942 Welles raccolse tutte le nomination di peso, regia, interpretazione, film e sceneggiatura. Ma vinse solo quella meno importante, il “mezzo Oscar”, come lo chiamò lui, per la sceneggiatura, condiviso con Herman J. Mankiewicz, venduto a un’asta nel 2011 alla sbalorditiva cifra di 861mila dollari.

Nel 1943 Welles ricevette un’altra nomination per il miglior film a L’orgoglio degli Amberson. Poi, scandalosamente, più nulla. Non è difficile capire perché: Welles era un carattere ingombrante, bigger than life, come i personaggi che recitava. Oltretutto non faceva mistero della sua idiosincrasia per il mondo della celluloide: “Hollywood è un quartiere dorato – dichiarò in un’intervista – adatto ai giocatori di golf, ai giardinieri, a vari tipi di uomini mediocri e ai cinematografari soddisfatti. Io non sono nulla di tutto ciò”. Il mondo dorato lo ripagò non producendogli più i film: così Welles condusse una carriera errabonda, inseguendo i suoi progetti low budget finanziati soprattutto con le sue partecipazioni da guest star in film altrui. Diresse e interpretò pellicole straordinarie, dalle opere shakespeariane a Mr Arkadin al Processo, ma tutte estranee all’ambiente hollywoodiano, non disposto a tollerare che il più coccolato degli esordienti si fosse sottratto alle regole del sistema.

Naturalmente arrivò l’Oscar riparatore alla carriera, nel 1971: Welles lo accettò, ma non volle partecipare alla serata, fingendo di essere all’estero. “Non ci sono andato perché in queste cose mi sento veramente un idiota. Così ho girato un video in cui dicevo che ero in Spagna e li ringraziavo. Mi introdusse John Huston, che alla fine diceva ‘Buona notte Orson, ovunque tu sia’. Ero a Laurel Canyon”, cioè un quartiere di Hollywood. Diavolo d’un Welles, che riuscì a trasformare anche la cerimonia degli Oscar in uno dei suoi impagabili falsi d’autore.

10. Leonardo DiCaprio

L’augurio è che l’anno prossimo si debba depennare il nome di Leonardo DiCaprio da questa lista. Perché il 2016 è l’anno giusto per l’attore, favoritissimo nella corsa alla statuetta con la sua interpretazione del trapper Hugh Glass in Revenant – Redivivo di Alejandro González Iñárritu. Un ruolo proibitivo, muscolare, faticosissimo, insomma l’ideale per i membri dell’Academy, che prediligono questo genere di interpretazioni vistose. Volendo essere cattivi, si potrebbe persino ipotizzare che DiCaprio l’abbia scelto a tavolino, andando a pescare un ruolo su misura da notte degli Oscar. Se anche fosse, bisognerebbe capirlo, perché negli anni il burrascoso rapporto tra l’ancora giovane attore e l’Academy ha assunto contorni leggendari.

Si può dire infatti che DiCaprio sia riconosciuto da chiunque tranne che dai giurati dell’Oscar come l’attore più dotato della sua generazione. Prima di Revenant ha collezionato tre nomination come migliore attore, restando sempre all’asciutto: nel 2004 per The aviator, battuto dal Ray Charles di Jamie Foxx; per Blood diamond nel 2006, quando vinse Forest Whitaker con L’ultimo re di Scozia; e nel 2014 per la maiuscola interpretazione di The Wolf of Wall Street di Scorsese, ma c’era il sorprendente Matthew McConaughey di Dallas Buyers Club. Per The Wolf of Wall Street ha ricevuto anche una nomination per il miglior film, in qualità di produttore, senza ovviamente vincere. E non va dimenticata la giovanile nomination del 1993, come miglior attore non protagonista di Buon compleanno, Mr Grape: altro buco nell’acqua, a vantaggio del Tommy Lee Jones del Fuggitivo.

Non gli andò bene nemmeno quando recitò la parte del protagonista nell’asso pigliatutto Titanic: fu praticamente il solo del cast a non ricevere neanche la nomination. Ma sono tante le sue interpretazioni inspiegabilmente passate sotto silenzio, da Prova a prendermi di Spielberg a The Departed di Scorsese. Proprio il sodalizio con il regista italo-americano potrebbe non avergli giovato: un autore rispettato, ma troppo intellettuale e newyorkese per piacere davvero all’Academy. E potrebbero non aver giocato a suo favore gli endorsement per il partito democratico e l’impegno ambientalista.

A ogni notte degli Oscar i social network si scatenano cercando di interpretare ogni più piccola espressione sul volto dell’attore per coglierne la delusione, e poi confezionano video per prenderlo in giro. E se gli capita di ottenere un riconoscimento, persino i giornali non resistono alla tentazione di fare dell’ironia. Ma quest’anno sembra diverso, dato che l’attore ha vinto tutti i premi di avvicinamento agli Oscar, dai Golden Globe ai britannici Bafta. Non vogliamo neanche immaginare cosa accadrebbe in caso di mancata vittoria: e credo che nemmeno i suoi contendenti, da Michael Fassbender a Bryan Cranston, se lo augurino. Quest’anno tifano tutti DiCaprio.

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