Selma: la lunga marcia verso la libertà di Martin Luther King

Il film di Ava DuVernay è una biografia del paladino dei diritti civili che non indulge nella leggenda. Un racconto corale, che mette in luce il ruolo dei dirigenti e delle donne all’interno del movimento. Con qualche stoccata al presidente Lyndon Johnson e all’Fbi. La ragione, secondo alcuni, delle pochissime nomination agli Oscar 2015.

Selma Strada per la liberta Martin Luther King

INTERAZIONI: 50

Tante le polemiche su Selma – La strada per la libertà, il film dedicato a Martin Luther King: secondo alcuni ha sbagliato l’Academy accordandogli solo due nomination all’Oscar. Immediati sono scattati i sospetti di discriminazione per una pellicola che narra una pagina controversa di storia americana.

Selma è una cittadina dell’Alabama, roccaforte del razzismo, in cui nel 1965 King (David Oyelowo) si recò per combattere da lì la decisiva battaglia per l’estensione del diritto di voto ai neri. La marcia pacifica da Selma a Montgomery venne brutalmente bloccata dalla polizia locale e le violenze andarono in diretta sulla Cbs. Uno shock che mutò la percezione del razzismo nel paese e incise sulla decisione del presidente Lyndon Johnson di far approvare velocemente il Voting Rights Act.

Il film di Ava DuVernay, regista nera proveniente dal cinema indipendente, ha voluto costruire un ritratto a tutto tondo di King, sottraendolo a tentazioni agiografiche. Il protagonista di Selma è provato da una missione esaltante ma estrema, preda di dubbi e scoramenti. Un uomo che probabilmente ha tradito la moglie ed è capace di compiere scelte controverse: come quella di andare a Selma sapendo che lo sceriffo locale è un violento che avrebbe risposto con brutalità alle manifestazioni pacifiste. Proprio quello di cui aveva bisogno il movimento per influenzare l’opinione pubblica e le scelte del Parlamento.

King è un religioso non violento che per imprimere il cambiamento si trasforma in un leader che accetta il pragmatismo e i compromessi della politica, consapevole delle possibili tragiche conseguenze delle sue decisioni. Per questo è ritratto spesso nella penombra, incerta e ambigua come le scelte che è costretto a fare per il bene della causa.

Selma sposa un punto di vista antiretorico sulla materia narrata. Racconta le ambiguità del presidente Johnson (Tom Wilkinson) – ritratto accolto con mugugni dalla stampa statunitense –, che non risponde immediatamente alle richieste di giustizia sociale di King, ma anzi cerca di contrastarlo attraverso il discutibile operato dell’Fbi, e si convince solo dopo l’assassinio di un prete bianco che marciò insieme ai neri. Con la medesima franchezza è narrato il ruolo delle donne all’interno del movimento, fondamentali eppure tenute in secondo piano dalla maschilista comunità di colore, nella quale i discriminati erano quindi capaci di forme di discriminazione.

La DuVernay mirava al realismo – perciò ha girato in Alabama sui veri luoghi della vicenda –, per andare oltre la superficie del mito e ritrovare gli uomini e la storia. L’unico limite sta nell’uso del ralenti nelle scene di violenza: uno strumento ambiguo – lo sapeva bene Sam Peckinpah –, che rappresenta la brutalità mostrandola fino in fondo, ma corre il rischio di trasformarla in uno spettacolo disturbante e attraente allo stesso tempo. Ripresa in primissimo piano al rallentatore, la sofferenza non sembra più qualcosa di reale provato da individui concreti, ma il dolore monumentale di martiri che non appartengono alla storia degli uomini ma quasi alla leggenda. E così il realismo ostinatamente cercato si smarrisce e la mitologia riprende il sopravvento.