Due giorni, una notte: il cinema necessario dei fratelli Dardenne

Marion Cotillard si cala con sensibilità nei panni di una donna costretta a lottare per il posto di lavoro. I registi belgi raccontano l'età della crisi, dove la solidarietà di classe è un ricordo e i diritti diventano una questione personale.

Cotillard in Due giorni una notte dei fratelli Dardenne

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Il cinema di Jean-Pierre e Luc Dardenne sembra trasparente: come se la realtà venisse semplicemente registrata, senza interventi o manipolazioni. Gli attori paiono persone riprese dal vero, sorprese nel bel mezzo di gesti quotidiani, di cui la macchina da presa mette in luce il valore universale.

Ma l’operazione dei Dardenne è complessa e non si risolve in una documentazione letterale: i due fratelli belgi portano avanti un cinema di finzione che, attraverso una messa in scena curata sin nei minimi dettagli, mira a una sapiente ricostruzione del reale.

Marion Cotillard, star del cinema francese protagonista di Due giorni, una notte, ha sottolineato il certosino lavoro di preparazione fatto prima delle riprese, cercando le atmosfere, i tagli d’inquadratura, i gesti più adatti. È il segreto più vecchio del mondo: lavorare molto per far apparire il risultato finale il più naturale possibile, come fosse filmato casualmente lì per lì, in presa diretta. Depurare e semplificare lo stile – di regia e interpretazione – fino a farlo sembrare realtà. Ma una realtà al secondo grado: nella quale la consapevolezza del processo di manipolazione cui il cinema sottopone il mondo da rappresentare obbliga a restare vigili, per evitare di trasformare il film in una pura falsificazione.

Così i Dardenne evitano anche il rischio del cinema militante, pieno di certezze e parole d’ordine: aiutati dalla camera a mano che, pedinando corpi e volti, non esclude nulla dall’immagine e restituisce l’universo narrato nella sua complessità, senza limitarsi a porzioni di realtà e ragioni di parte.

In Due giorni, una notte, Sandra (Cotillard) è un’operaia reduce dalla depressione che sta per perdere l’impiego. I suoi colleghi, obbligati dal datore di lavoro, hanno dovuto scegliere tra il suo licenziamento e un bonus di produzione, votando per i soldi. Ma ci sarà una seconda votazione: e Sandra ha un weekend per convincere i 15 colleghi a cambiare idea.

Una struttura narrativa quasi da thriller, ma verosimile: qui è il talento dei Dardenne, che intrecciano realtà e finzione, componendo il ritratto di un credibile mondo in cui coesistono solidarietà ed egoismo. Sandra incontra a uno a uno i colleghi, mossa da un misto di sfiducia, determinazione e vergogna. Ognuno reagisce a suo modo, chi con violenza, chi scusandosi, chi mostrando comprensione, chi disinteresse. Su nessuno i Dardenne gettano uno sguardo di riprovazione, anche se si capisce benissimo da che parte stanno.

Due giorni, una notte è uno spaccato sociale nel quale l’automatismo della solidarietà di classe non ha più cittadinanza e la difesa dei propri diritti passa attraverso un’assunzione di responsabilità personale e l’indispensabile supporto degli affetti – il ruolo fondamentale del marito Manu (Fabrizio Rongione). La ripetitività della situazione è la grandezza e il limite del film, il cui itinerario sembra a tratti troppo obbligato. Ma è il modo per fornire la visione articolata di un mondo di piccolissima borghesia assai fragile, sempre sul punto di franare sotto la crisi economica. Proprio come Sandra, che vorrebbe abbandonarsi alla depressione, ma è capace di trovare ragione e coraggio per andare avanti.