Take five: la Napoli noir di Guido Lombardi

Convince la nuova prova del regista napoletano, un "noir neorealista" con un affiatato quintetto di attori, guidati da Peppe Lanzetta. Uno sguardo tagliente su una Napoli cinica e materialista.

Take five Napoli noir di Guido Lombardi con Peppe Lanzetta

INTERAZIONI: 91

Take five è un classico del jazz che usa un tempo “irregolare”, in 5/4. Titolo perfetto per il nuovo film di Guido Lombardi, perché sono cinque irregolari i rapinatori di questa banda del buco che svaligia il caveau di una banca per un colpo milionario.

Ognuno si porta addosso una storia di infelicità e fallimenti: ’O sciomèn, un ruolo tagliato sul carattere e sulla fisicità di un ottimo Peppe Lanzetta, criminale ammantato di un’aura di leggenda che tira avanti grazie agli antidepressivi; Salvatore (Salvatore Striano), fotografo, ex criminale cardiopatico; Ruocco (Salvatore Ruocco), ex pugile squalificato a vita finito nei combattimenti illegali; Carmine (Carmine Paternoster), idraulico con pesanti debiti di gioco; Gaetano (Gaetano Di Vaio, anche produttore del film con la sua Figli del Bronx), piccolo ricettatore in cerca di riscatto. Il gran colpo va a segno, ma le cose non filano troppo lisce, perché ci si mette di mezzo un boss della camorra ingolosito dal bottino.

Guido Lombardi era reduce dal bell’esordio di La-bàs: un racconto sull’immigrazione clandestina nel casertano, esplicito nel mostrare vite sul filo dell’illegalità e anche oltre, però interessato a indagare le dinamiche sociali e umane di quella realtà, senza farsi stritolare dal ricatto sensazionalistico della rappresentazione della violenza. Take five mantiene la stessa lucidità di sguardo e usa il filtro del genere cinematografico, rispettandolo pienamente, per portare avanti un discorso ricco di precise notazioni su Napoli.

Gli interpreti, Lanzetta a parte, hanno storie criminali alle spalle: i personaggi sono scritti sulla loro pelle e non a caso ne mantengono gli autentici nomi. C’è una piena corrispondenza tra racconto e verità: la finzione costituisce un velo sottile che tiene a minima distanza la realtà, ma la richiama continuamente e la usa per dare spessore alla narrazione cinematografica. Il risultato è un noir quasi neorealista, in cui gli attori rispondono ai caratteri con grande naturalezza, offrendo prove sofferte e aderenti.

Sono inevitabili alcune ascendenze, su tutte Le iene di Tarantino, di cui Take five riprende alcune situazioni e dinamiche. È fuorviante invece il riferimento ai Soliti ignoti di Monicelli: lì non veniva mai meno il senso dell’amicizia, mentre qui i malavitosi sono cinque individui che stanno insieme per ragioni funzionali, ma resta una forte diffidenza reciproca, sempre sul punto di esplodere.

In Take five nessuno è quello che sembra: e sulla sfiducia che aleggia su tutti e verso tutti Lombardi innesta il suo giudizio relativo a un mondo che ha smarrito qualunque senso di solidarietà. Peccato solo che il racconto nell’ultima parte perda equilibrio e giunga precipitosamente a un finale di un cinismo un po’ facile.

Ma questo non inficia il discorso di fondo, sintetizzato dall’indovinato personaggio del ragazzino (l’esordiente Emanuele Abbate) che fa da spola tra i banditi e la camorra. Un quattordicenne che crede di saperla lunga, ma è affetto da una malattia che lo fa sembrare molto più piccolo della sua età. Un’allegoria illuminante di una città che si pensa furba e già adulta e che invece non possiede gli strumenti per riuscire finalmente a crescere.