Anime nere di Francesco Munzi: la Calabria è un cuore di tenebra

La ’ndrangheta raccontata come una tragedia greca: tra legami di sangue e un destino ineluttabile.

Anime nere di Francesco Munzi: Calabria e 'ndrangheta

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Ha impiegato tre anni Francesco Munzi per realizzare Anime nere, tratto dal romanzo omonimo di Gioacchino Criaco, il film italiano più applaudito all’ultimo festival di Venezia. Un tempo necessario per capire, da straniero, cos’è la Calabria. Perché la Calabria sembra non appartenere all’Italia, è un luogo lontanissimo (così dice un personaggio milanese nel film), dove si parla solo in dialetto, perché lì l’italiano non è arrivato ancora (altra battuta).

Al centro del film tre fratelli: Luigi, arricchito col traffico di droga, Rocco, che sulle fortune illecite ha costruito una rispettabilità borghese a Milano e Luciano, l’unico rimasto in Calabria a fare il pastore. Una bravata di suo figlio Leo riattiva un antico odio tra clan, legato all’uccisione, anni prima, del padre dei tre. E la famiglia si riunisce nella natia Africo.

Mancando immaginari consolidati – la ’ndrangheta al cinema è molto meno frequentata di mafia e camorra – il regista sceglie i toni di una tragedia greca, adatta a una storia di legami di sangue, annegando corpi e volti tra ombre e colori lividi. Munzi mette a frutto anche la sua esperienza di documentarista: scandaglia la geografia dei luoghi, simbolicamente forte, dove i vecchi paesi di montagna sono fantasmi disabitati e i nuovi centri a valle hanno case costruite solo a metà. Passato e presente annodati in una perenne incompiutezza, quindi: ed è difficile ipotizzare un futuro in una terra senza progetti – anche la scuola è abbandonata –, dove l’unica educazione possibile è all’insegna della violenza, tra memoria dei morti ammazzati e faide interminabili.

Luigi e Rocco costituiscono il volto moderno dell’antica logica da clan, dalla sostanza cupa e aggressiva: sintomatica la scena in cui, per pranzo, rubano delle capre che sgozzano e macellano lì per lì. Luciano è l’altra anima: lui le capre le cura, la sua polvere non è la cocaina, ma quella depositata ai piedi della statua del santo che lui, con misterioso rituale, beve sciogliendo nell’acqua. Luciano rifiuta una violenza che è però incistata nella carne della sua carne, il figlio apprendista malavitoso Leo. E la contrapposizione tra questi due mondi non può che deflagrare.

Non tutto funziona in Anime nere: a tratti il ritmo latita e qualche personaggio non è perfettamente a fuoco, in particolare Rocco, di cui sarebbe stato opportuno scavare con maggiore dettaglio l’anima bifronte (ma è bravo Peppino Mazzotta a renderlo con una prova sapientemente sottotono, senza pose da padrino).

Ma le poche imperfezioni sono riscattate dal finale più intelligente e coraggioso del cinema italiano degli ultimi anni. Una conclusione di disperata lucidità morale, che vede l’unica soluzione nell’estinzione della specie. Anime nere sfugge a facili interpretazioni sociologiche e si sottrae alla logica delle operine edificanti del cinema civile all’italiana, che distinguono tra buoni e cattivi e mandano a casa contento lo spettatore che ha sostenuto la parte giusta. Munzi si immerge nel cuore di tenebra della storia e degli uomini: e la conclusione che ne trae è di doloroso pessimismo.