Lasciate che le Juggalettes o almeno Amanda Palmer vengano a me, discorso sui fan

Per questa mia ammirazione e in fondo neanche troppo segreta bonaria invidia che provo nei confronti di Amanda Palmer, che la seguo con tanta attenzione, anche quando non sta propriamente producendo musica nuova

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Sono sempre rimasto affascinato dal mondo dei fan. Anche e soprattutto di quelli che fan non amano farsi definire, vuoi perché hanno scelto per loro un nome specifico, i guerrieri, le bestie, i mostriciattoli, quel che è, vuoi perché la parola fan è un po’ troppo cheap per essere appiccicata addosso a qualcuno che si ritiene, magari a ragione, colto, in qualche modo intellettualmente superiore a quel modo di intendere la musica lì, perché è di musica che sto parlando.

Ne sono sempre rimasto affascinato perché, da uno che comunque fa qualcosa che prevede ci sia dall’altra parte un pubblico, seppur con le modalità e le tempistiche che lo scrivere e quindi il leggere prevede, avere una conoscenza precisa di chi si relazione alle mie opere, usiamo questo termine generico, mi incuriosisce, della serie che spesso mi chiedo chi ha tutta questa pazienza di star lì a leggere le mie parole. Certo, ho qualche idea di chi lo fa, anche quello nello modalità oggi di moda, da una parte i report dei magazine per cui scrivo, dall’altra gli insight dei social, attraverso ai quali so età media, sesso e fasce geografiche di chi mi legge. E sempre i social, poi, hanno in qualche modo reso possibile qualcosa che, un tempo, sarebbe stato impensabile per uno scrittore, ancor più per uno scrittore che come me non ama andare tra la gente, quello cioè di entrare in contatto, addirittura in contatto quotidiano con il proprio pubblico di lettori, in alcuni casi anche lettori che manifestano alcuni sintomi tipici dei fan.

Ma i miei, anche quelli più affezionati, quelli che seguono praticamente tutto quel che faccio, che in discussioni pubbliche si schierano a mio favore, anche in mia assenza, difendendomi all’ultimo sangue, non sono veri fan, non esiste un fanclub, non sono organizzati e, per intendersi, non si riconoscono come parte di un’entità definita, identificabile come tale anche da occhio esterno.

Tempo fa, molto tempo fa, mi sono imbattuto sui Juggalos e le Juggalettes, per dire. Stavo facendo una delle mie ricerche, credo sul White Trash e sul cinema di Harmony Korine, o qualcosa del genere, quando sono incappato in questa bizzarra comunità di uomini e donne caucasici e dall’aspetto fisico non curatissimo, i fan del duo di rapper di Detroit che rispondono al nome di Insane Clown Posse. Così ho scoperto, che un po’ alla maniera dei deadhead, gli storici supporter dei Grateful Dead, noti per seguire ovunque la band di Jerry Garcia in giro per gli States, spesso a bordo di furgoni e camper, comunque sempre disposti a bivaccare nei pressi delle aree dove si esibivano, e pronti a registrare i concerti, credo che i Grateful Dead siano la band con più bootleg al mondo, incentivati proprio dal gruppo, i Juggalos e le Juggalettes seguivano i concerti degli ICP, bivaccando nei pressi e soprattutto imbruttendosi a suon di alcool e droghe di varia natura, spesso lasciando sui social traccia delle loro bravate e esibendo i propri corpi non scultorei con una grande e non richiesta generosità. Se siete mai andati a un motoraduno, io l’ho fatto, potete immaginarvi lontanissimamente di cosa io stia parlando, ma in questo gli stessi social, Twitter in testa, e più in generale Google può venirvi in aiuto.

Non è un segreto che tanto sono rimasto impressionato da questo mondo, e dall’immaginario che questo mondo in qualche modo esprime, dall’aver minacciato il mondo, esattamente alla medesima maniera dei cattivi marziani in certi B Movie di fantascienza, di portare in giro uno show musicale in compagnia del mio socio Gianni Biondillo, entrambi sul palco in boxer e con i visi dipinti di bianco, come i clown cattivi di cui sopra. Certo, lo confesso, a incuriosirmi del fenomeno in questione non è tanto e solo il fatto che ci sia in effetti un numero anche nutrito di persone che apprezzino gli Insane Clown Posse, non proprio dei giganti, in fatto di rap hardcore, seppur con un loro stile preciso, il loro, apprezzino al punto da seguirli in giro per gli States e di bivaccare nei pressi di dove suonano lasciandosi andare a situazioni borderline, spesso illegali, così, a occhio, quanto piuttosto il fatto che detto nutrito numero di persone non provi alcun senso di vergogna, credo si potrebbe comodamente usare la parola spudoratezza, se mai conoscessero la parola pudore, nel mostrarsi non poco sfatto, sciatto, quasi a voler ostentare non solo il vivere in uno stato di degrado, di marginalità, ma addirittura di far vanto del proprio essere brutti. Intendiamoci, se si ravvisasse dietro questa ostentazione una volontà, anche ferrea, di stigmatizzare i vigenti canoni di bellezza, un andare contro la narrazione che vuole la perfezione, quella sbandierata seguendo un pensiero unico, uno potrebbe anche dire che tutto questo è buono e giusto, una specie di reazione altrettanto violenta, quasi uno spirito punk redivivo. Ma la sensazione è che si tratti di semplice gioia di vivere esternata nonostante la propria condizione non esattamente invidiabile, in barba al buongusto, certo, e forse anche al buon senso.

Ricordo che quando anni fa mi sono riavvicinato al mondo della comunicazione e del giornalismo, dopo un decennio nel quale mi ero prevalentemente occupato di libri, i giornali si sono occupati per qualche giorno di un nuovo fenomeno che si era diffuso in Messico. Ovviamente era una di quelle notizie buone per distrarre, direbbe qualcuno, per occupare spazi, e soprattutto per fare click forte di un certo grado di morbosità. Il sesso, è noto, aiuta molto a vendere, specie in rete. Il fenomeno di cui si è parlato, credo per pochi giorni, salvo poi essere sostituito da qualche altra notizia di scarso impatto sulle nostre vite, era quello della cosiddetta PutiPobres. Come dentro lo strepitoso video di Pina Colada di Margherita Vicario, parlo di scenario, le PutiPobres, giovani, a volte davvero giovanissime messicane che vivevano in contesti fortemente disagiati, tipo baraccopoli, pubblicavano video e foto con contenuti piccanti, a volte esplicitamente porno su Twitter, accompagnando il tutto dall’hashtag #PutiPobres, o le varianti #PutiPobre, #Putipobreza e affini. Il mix proposto, in pratica, era a base di estrema povertà, la pobreza di cui sopra, e una sessualità spinta, spesso condita di una giovinezza al limite dell’ambiguo, a volte, si leggeva, le ragazze neanche erano esattamente ragazze, quasi ancora bambine. Quindi povertà sbandierata quasi con orgoglio e sesso. Nei video, ovvio che sono andato a cercarli, come chiunque si incuriosisca di un fenomeno di massa che per qualche ora attraversa il nostro mondo, si vedevano arredamenti sgaruppati, di poco conto e spesso sfasciati, spesso dentro case in cemento grezzo, i mattoni a vista, a volte anche le lamiere. In mezzo a queste location loro, le putipobres, ragazze, ragazzine, a volte anche donne di età incerte, che si mostrano lascive, a volte anche goffamente lascive, i fisici abbondanti, poco o per nulla coperti da lingerie dozzinali, nessun accenno di depilazione, figuriamoci. Nei video le putipobres non sono quasi mai sole, e non parlo di chi sta girando i video o scattando le foto. Sono presenti in coppia, spesso, a volte anche in presenza di un maschio, quasi mai inquadrato nella sua totalità, la faccia non è praticamente mai presente, a simulare una qualsiasi scena di sesso estrapolata da un film porno. Qualcosa di disturbante, lo dico senza falsi moralismi, ero lì per capire, sarei potuto semplicemente starmene altrove, ma credo in assenza di una qualsiasi volontà di farlo, un disagio involontario. Che tra il White Trash, quella fascia di americani che vivono in povertà prevalentemente nella zona centrale degli States e che ho imparato a conoscere nelle canzoni di Springsteen, prima, e nei film di Korine, poi, recentemente tornati in auge grazie a Nomadeland, e la povertà mista a sesso esibita dalle putipobres ci sia più di un punto di contatto è evidente, seppur nei casi del Boss, di Harmomy Korine e di Nomadeland c’è la mediazione dell’arte, la rappresentazione, mentre nel caso delle putipobres c’è una urgenza, confesso per me inspiegabile, di esibirsi e di esibirsi proprio nello stato di indigenza e marginalità. Di qui il mio parlarne adesso, dopo avervi introdotto al mondo dei Juggalos e delle Juggalettes, il bizzarro fanclub degli Insane Clown Posse. Stessa condizione sociale, stessa ostentazione di una sessualità esuberante, promiscua, disturbante.

Qualcuno, a questo punto, e nel dire qualcuno esibisco la certezza che a leggere ci sia comunque un numero sufficiente di persone a permettermi di allestire anche delle porzioni di, altrimenti dovrei rivolgermi a un affatto generico “tu che mi leggi”, ripeto, so suppergiù quanti lettori ho e anche di che età, sesso, e provenienza geografica, qualcuno, quindi, a questo punto si starà chiedendo se questo mio parlare, volendo anche ciarlare, non sia frutto di un desiderio malcelato di avere una fanbase, certo, ma una fanbase di quella fatta, sessualizzata, spudorata, coatta e sciatta. Beh, diciamo che no, non è esattamente questo il punto, e seppur io provi antropologicamente parlando una certa fascinazione per questa attitudine a sbandierare ai quattro venti la propria indigenza e a che la propria sconcia inadeguatezza ai canoni vigenti del bello, sono pur sempre stato un punk, diciamo che proprio potendo scegliere non è certo un manipolo di ubriaconi e ubriacone mezzi nudi e fortemente sessualizzati che vorrei come seguaci. Non che io abbia nulla contro le nudità e la sessualizzazione, sulla carta, intendiamoci. Mettiamola così, non è quello il mondo nel quale mi riconosco, o che penso avrebbe ragione di riconoscersi in me e nelle mie opere.

Ambirei, invece, visto che al nudo si è fatto cenno, a qualcosa di simile a quello che negli anni è riuscita a creare, perché di creazione si tratta, Amanda Palmer, una che quando si tratta di mostrarsi al naturale non si è mai fatta troppi problemi. Non credo serva fare qui tutto l’excursus, ma Amanda Palmer, prima parte dei Dresden Dolls, poi solista col nome di Amanda Fuckin’ Palmer è stata capace come nessun’altra e nessun altro di mettere insieme un gruppo di sostenitori attenti, fedeli, disposti non solo a seguirla in tutte le sue stravaganze e sicuramente geniali deviazioni sul percorso principale, oltre che a sostenere tutte le sue iniziative più strettamente correlate al suo essere una cantautrice, ma anche a fidarsi a priori delle sue intuizioni, quanto da tempo sta facendo su Patreon ne è prova provata. Perché se le iniziative fatte su Kickstarter, i crowdfunding sempre generosissimi, il primo entrato a suo modo nel libro dei record, con quel milione e duecentomila dollari tirati su a fronte di una richiesta di ventimila, erano comunque finalizzate a mettere in piedi progetti precisi, dichiarati e specificati in partenza, con Patreon, questa un po’ la formula di quella piattaforma, che Amanda Palmer usa alla perfezione, il patto tra artista e pubblico è quello di una fiducia e un sostegno sulla carta, io ti permetto di fare quel che poi andrai a fare, ancora prima che tu me lo abbia comunicato, forse ancora prima che tu stessa lo abbia concepito e ideato. Del resto, artista genialmente folle, iperattiva e irrequieta anche sul fronte della creazione, pubblico che ne segue pedissequamente le orme.

Fatta la tara sul fatto che no, io non sono Amanda Palmer, e che no, io non ho giustamente il suo medesimo seguito, figuriamoci se volevo allestire un parallelo già sulla carta così poco generoso per me, il discorso che ho provato a azzardare verteva più sulla modalità, che sulla sostanza, pur volendo io, neanche troppo tra le righe, sottolineare ancora una volta pubblicamente tutta la mia stima nei confronti della cantautrice di Boston, dall’inizio del Covid19 di stanza in Nuova Zelanda. È per questo, per questa mia ammirazione e in fondo neanche troppo segreta bonaria invidia che provo nei suoi confronti, che la seguo con tanta attenzione, anche quando non sta propriamente producendo musica nuova. E per questo, spesso, provo a cimentarmi con le sue stesse sfide, ovviamente sapendo già in partenza che i risultati saranno sempre in scala abbondantemente ridotta. L’ho fatto nel 2018, quando ho messo me stesso all’asta in un crowdfunding piuttosto fortunato, nei risultati, e sicuramente sorprendente, almeno dal mio punto di vista. L’ho fatto in queste ore, pur senza ancora capire quale sarà il prossimo passo, nel momento in cui mi sono iscritto anche io a Patreon, senza avere una idea precisa di cosa andare a costruirci sopra e cosa proporre a un mio ipotetico pubblico. Pubblico che, a questo punto, mi auguro intenda riunirsi in maniera più metodica, cercandosi un nome, trovando un qualche segno di riconoscimento, sempre e comunque tributandomi la propria stima e esternando la propria adorazione attraverso qualcosa che abbia comunque a che fare col nudo e con una spiccata sessualizzazione. Lasciate che le Juggalettes vengano a me, o che almeno ci arrivi Amanda Palmer.