Wu Tang o sulla riproducibilità del gesto artistico

Il Wu Tang Clan si interroga sulla necessità di proporre un’opera d’arte unica in questa era di replicabilità sfrenata e gratuita


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Ho finito da poco di leggere l’autobiografia di Marina Abramovic. Ben prima che provasse goffamente a citarla Achille Lauro mi ero interessato alla sua arte performativa, figuriamoci, avevo proposto una “cover” proprio del suo The Artist is Present all’interno del mio crowdfunding “Monina Sì vs Monina No”, parliamo del 2018, con i raiser che avrebbero potuto sedersi di fronte a me e dirmi tutto quello che pensavano, io in silenzio, impassibile, a ascoltarli. Anche raiser famosi, questa l’idea, ovviamente rimasta inevasa, il senso dell’umorismo cozza spesso con gli ego ipertrofici dei nostri sedicenti artisti, penso a una Emma, a una Laura Pausini. Marina Abramovic mi ha sempre incuriosito, per questo ho letto la sua autobiografia. Achille Lauro non trova spazio in questo pezzo, come del resto non ne troverebbe anche se parlassi davvero di Marina Abramovic. O di musica.

Ho finito da poco di leggere l’autobiografia di Marina Abramovic e sono rimasto irretito dai suoi ragionamenti, spesso partiti più da una suggestione, una intuizione, che da un vero e proprio pensiero lucido, riguardo l’unicità del momento artistico, della performance. In fondo è questa unicità che ha reso ai miei occhi, spesso più che alle mie orecchie, così fascinoso certo jazz, l’idea che quel che succede su un palco, l’improvvisazione che pur partendo da canoni, essendo appunto improvvisazione è a suo modo irripetibile, poi ci saranno anche i canoni sui canoni, è ovvio. Ne ha tratto un bellissimo libro Geoff Dyer, da questo concetto, Natura morta con custodia di sax, già ho speso parecchie parole, anche qui, a riguardo, lungi da me ritornarci. In teoria, non ci fossero le sequenze, spesso, troppo spesso, i videowall che si incastrano perfettamente con le canzoni, certo con delle variabili minime, ma minema davvero, i live dovrebbero essere tutti così, la sola presenza non muta del pubblico a generare delle differenze, ma di live veri, almeno dalle nostre parti, se ne sentono pochi, Enrico Ruggeri un raro esempio, a riguardo.

Ma non è neanche di Rouge che voglio parlare, a giorni insignito finalmente del Premio Tenco, seppur nell’anno sbagliato, quando cioè incautamente il Club Tenco parla di deoggettivazione del Premio, di muri caduti e altre sciocchezze. No, mi interessa affrontare il tema dell’unicità del gesto artistico, e di come, e se, l’unicità del gesto artistico sia applicabile alla musica leggera.

Giorni fa ho visto un episodio di una serie che seguo da qualche anno. Non dico quale, così quello che sto per dire non risulterà essere uno spoiler. Tanto quel che sto per raccontare non è riconducibile direttamente alla trama, e anche per questo è stato un passaggio che ho molto apprezzato, sorprendente. Perché a un certo punto, così, di colpo, è arrivato in scena Once upon a Time in Shaolin del Wu-Tang Clan. Se leggere questo titolo non vi ha detto niente, beh, credo che quanto sto per scrivere potrebbe risultarvi quantomeno bizzarro, perché l’album in questione è stato tirato in una sola singola copia, messa all’asta nel 2015 dal Clan e battuta per due milioni di dollari a favore dell’uomo d’affari Martin Shkreli. L’idea di RZA e soci era proprio quella di creare un’opera d’arte unica, da contrapporre a quelle ormai pervasivamente e invasivamente presenti in rete, anche se tutti suppergiù pensavano che chi l’avrebbe acquistata avrebbe poi condiviso il tutto col resto del mondo. Così non è stato. E a parte qualche minuto sul totale, i pezzi dovrebbero essere trentuno, suddivisi su due album distinti, Shaolin School e Allah School, con presenti tutti gli otto membri del Clan e anche qualche ospite illustre, condivisi da Shkreli in occasione della vittoria alle elezioni di Donald Trump, nulla è trapelato in rete, e nulla hanno fatto trapelare gli stessi protagonisti, contravvenendo per altro a quanto avevano ideato inizialmente, il possesso dell’opera sarebbe dovuto essere temporaneo, per circa tre mesi.

Once upon a Time in Shaolin, quindi, contenuto dentro due custodie di legno intagliato a mano e contenuto dentro un cofanetto d’argento, tempestato di gioielli e accompagnato da un libro di centottanta pagine rilegato in cuoio, compare nell’episodio di questa serie di cui non ho fatto il nome, e vi compare, in genere si dice così per i cameo dei personaggi noti, interpretando se stesso. Un’opera d’arte unica, e in quanto unica da collezione. Il cui valore è sicuramente coerente con quello artistico, non lo metto in dubbio, conoscendo l’intera discografia del Wu-Tang Clan, ma che fa a sua volta entrare in scena un concetto quantomeno ambiguo, se un’opera d’arte può arrivare a valere due milioni di dollari all’asta, due milioni che si dimezzeranno in seguito, quando Shkreli lo venderà a un anonimo acquirente, vulgata vuole Quentin Tarantino, in virtù del suo valore artistico, e della sua unicità, ma ovviamente non avrebbe avuto quel valore in sé, se a farlo fosse stato un emerito sconosciuto e no una delle crew più importanti al mondo, come è poi possibile che un qualsiasi album, nel quale la musica del Clan viene riprodotta, si parli di fisico, di download o di streaming, quindi con vari gradi di possesso o comunque di utilizzo e consumo, perda notevolmente di valore, arrivando con lo streaming addirittura a rasentare la gratuità?

Chiaramente qui stiamo andando a scivolare su una china vischiosa, perché la riproducibilità di un’opera, pensiamo alla letteratura, per dire, al cinema, all’arte che viene pensata a volte come riproducibile, su questo già Andy Warhol aveva indicato il re abbondantemente nudo, è a volte parte stessa dell’opera, qui entrano in scena dettagli come la necessità di un pubblico per determinare un’opera, fatto che apre il baratro del “successo” dell’opera stessa, o quello un po’ più alto del chi determina se un’opera sia tale o meno, discorso dal quale, almeno in questo contesto, intendo tenermi a debita distanza. Nei fatti un album con trentuno canzoni, prodotte, interpretate e registrate, è stato messo all’asta e battuto per due milioni di dollari, dopo di che è rimasto praticamente inascoltato, almeno a un pubblico che non sia quello di chi ha frequentato casa dell’acquirente, sempre che l’acquirente lo abbia in effetti condiviso coi suoi amici, partenti e conoscenti. Lasciamo da parte la serie tv, sollevati immagino dalla totale assenza di riferimenti, quindi niente spoiler. Al più, se l’avete vista o la vedrete in seguito, avrete riconosciuto o riconoscerete la citazione, e se non sapevate cosa fosse Once upon a Time in Shaolin quel determinato passaggio vi sarà ora un pochino più chiaro.

Mi interessa affrontare, lo sto già facendo dall’inizio di questo testo scritto, l’idea di unicità del gesto artistico, applicata a una forma d’arte che genericamente, almeno dai tempi in cui la musica è stata incisa, forse anche da che la musica è stata scritta, e quindi è divenuta replicabile in presenza di uno o più esecutori, quindi Guido d’Arezzo, traslando in letteratura, e lasciando da parte gli amanuensi e gli scriba, direi Guttenberg, viene concepita per essere resa a disposizione di un mercato che implichi proprio la serialità e la riproduzione, anche a costi piuttosto bassi.

È di questi tempi bizzarri, bizzarri perché sembra che tutte quelle problematiche che negli anni erano state indicate come sul punto di presentarci il conto si siano date appuntamento per farlo in un’unica comoda soluzione, incasinando le nostre già piuttosto incasinate vite, scusate il tono pop col quale affronto la storia, o la Storia, l’idea che certe unicità insite nelle opere d’arte siano da mettere sul tavolo, parte della partita. Concetto che si è incrociato, siamo pur sempre nel 2021, con l’aleatorietà tipica del virtuale, l’intangibile che si fa sostanza, i rapporti sui social, le criptovalute, non fatemi spiegare l’ovvio. Da qui è partita l’idea dei NFT, dove l’acronimo sta per Non Fungible Token. I Token, taglio con l’accetta, è appunto la criptovaluta, quella alla base dei Bitcoin, che in questo ambito sono il mainstream, almeno per ora, e che con gli NFT diventano infungibili, non reciprocamente intercambiabili. Non una moneta, semplifico, dove l’una vale l’altra, ma una moneta unica, esclusiva, e per questa “fermata” sul registro digitale Blockchain. Gli NFT applicati alla musica, dopo che il tutto è transitato per il mondo dell’arte, vedi Marina Abramovic che viene replicata a distanza di quarant’anni da Achille Lauro, per dirci chi è avanti e chi segue, sono stati accolti da molti, no, da alcuni, non esageriamo, come una svolta, la vera salvezza del sistema, laddove lo streaming è una pezza che presto lascerà scoperto il buco, gli artisti non tenuti in conto da Spotify e affini. Abbiamo così assistito, negli ultimi mesi, a sperimentazioni di varia natura, dalla messa all’asta di opere inedite, in Italia Morgan lo ha fatto su  Opensea con Premessa della premessa, all’estero ci si sono fiondati in tanti, arrivando poi a sperimentazioni più complesse, video, istallazioni digitali animate e musicate, spartiti mai eseguiti e mai eseguibili, tutta una serie di variazioni Goldberg del caso. Ovviamente, annusato l’affare, sono arrivate anche le modifiche all’unicità del NFT, con la possibilità di serializzare l’opera unica, come le litografie numerate di alcuni artisti, il già citato Andy Warhol preso a modello. Di colpo, quindi, l’opera e la moneta che l’opera rappresenta, l’NFT, acquista un valore di uno a uno. Figuriamoci se sugli NFT non si sarebbe buttato il mondo dello sport, con l’NFT applicato al mondo dei memorabilia, un mercato capace di risanare da solo il debito pubblico di un paese di medio grandi dimensioni. Un modo, questo, per evitare le contraffazioni, per altro, perché l’NFT applicato alle memorabilia viene di volta fermato sui blockchain, sancendone in qualche modo la veridicità. Una maglia di un calciatore usata in una determinata partita, per intendersi, riprodotta digitalmente, viene seguita passo passo, da che viene prodotta a che verrà indossata, unica e sola, in una determinata occasione. Un modo, questo, per altro, di intrecciare digitale, il bene virtuale e volatile quantificato con l’NFT, e analogico, l’oggetto fisico. Anche la musica, di conseguenza, in perenne rincorsa, ha cominciato a muoversi su questo fronte, andando a creare eventi unici, concerti, eventi, opere d’arte, oggetti unici, penso alle audiocassette che al momento sembra qualcuno vorrebbe far tornare in auge, che passassero dalla dimensione virtuale a quella fisica, reale, sempre che non siano reali anche (gl)i NFT come lo può essere una voce incisa e resa una traccia sonora, un file.

Torniamo, quindi, al punto di partenza. Il Wu Tang Clan che si interroga sulla necessità di proporre un’opera d’arte unica in questa era di replicabilità sfrenata e gratuita, e partorisce l’album Once upon a Time in Shaolin, album stampato in un’unica copia, messa all’asta e battuta per due milioni di dollari. Un’operazione di NFT fatta prima che i token non fungibili divenissero faccenda di pubblico dominio. Applausi al Wu-Tang Clan, allora. Per tutto e anche per questo.

P.S.Per la cronaca, se siete arrivati fin qui pensando che questo pezzo, prima o poi, parlasse di Wu Tang, singolo apripista del nuovo album di Coez, Volare, credo abbiate sbagliato posto. Succede.