Nel deserto romano senza greenpass

Si vive male a Roma in tempi di greenpass sotto un cielo plumbeo di inizio febbraio, ci si sente ancora più soli, ancora più diversi


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Torpignattara dei belli e dei coatti, detti torpignatta, non esiste più, è a tutti gli effetti un quartiere africano e nordafricano con generose infiltrazioni cinesi e del sud-est asiatico. Di negozi, botteghe aperte solo le loro, saracinesche extracomunitarie, quelle italiane morte, arrugginite da chissà quando. Sono tornato a Roma per scoprire sul campo, anzi sul marciapiede, come si vive senza greenpass; mi è scaduto il primo di febbraio, farsi due dosi, starci male la prima volta, malissimo la seconda non è servito come non è servito comunicare i sintomi all’Aifa che li nascondeva, li passava all’Ema europea ma non agli organi di informazione italiani che non glieli chiedevano.
Si vive male, ammesso che si possa chiamarlo vivere. Alle 2 pomeridiane può succedere di aver fame, ma se sei un novax di ritorno, no vax di stato, puoi anche morire di inedia. Vai in un baretto dalle parti di largo Preneste, entri, chiedi se possono portarti al tavolino fuori un cappuccio con una brioche, ma le commesse, subito: il greenpass. No? Allola ci dispiace. Perchè sono cinesi e questo è proprio il colmo. Tante grazie, rispondo, questa faccenda l’avete esportata voi, è roba vostra, non dimenticatelo. Quelle mi guardano senza espressione, come quando si vuol far sentire uno trasparente. Alla cinese. Così dappertutto, però: non che gli indigeni siano più comprensivi. Lo sanno o non lo sanno che si stanno giocando l’attività? Che presto le mafie cinesi o arabe arriveranno a rilevare le loro botteghe sottocosto, con ricatti da strozzini, essendo le uniche a disporre di soldi freschi, anche se il mafiologo sanremese Saviano non lo ammetterà mai? Lo sanno, ma sono stupidi. Fortuna che qualcuno si ribella. All’italiana. Cartello bene in vista, ma se entri non ti chiedono niente. Così, cappuccio e brioche al tavolino che lambisce il trafficone romano, un po’ alla Ernesto Calindri del Cynar, posso mettermi a stendere queste righe.
Devo avere proprio l’aria del giornalista, perchè una a passo svelto mi lancia un “buon lavoro” prima di evaporare dietro il suo impossibile vivere. Però che schifo questo stato in cui ci siamo ridotti, e che schifo questo Stato che a tanto ci ha ridotti: i progressisti, gli zelanti possono dire quello che vogliono ma incollarsi a una vetrina sapendo che ne verrai rifiutato ricorda molto le leggi razziali, l’ingresso vietato agli ebrei e chi lo nega non ha nessuna scusa, casomai l’aggravante del cinismo. Perchè restare col naso incollato al vetro di un ristorante, di un bar, ti umilia, ti mortifica, e per cosa? Per la sicurezza comune? Per il senso di responsabilità che dovrebbe spingerci tutti, con le buone o con le cattive, ma più le cattive, a rassegnarci, a credere, cedere alla follia? Davanti al tabaccaio aperto a orario continuato c’è una fila di viziosi in astinenza: davvero è così che si combatte la terribile pandemia, così terribile che il regime non ha coraggio di diffondere i dati veri, non quelli grezzi per dire manipolati, mentre il resto del mondo rinsavisce e si rimangia tutto, restrizioni, obblighi, divieti, diavolerie per controllare meglio i sudditi?
E non lo capiscono. Sbalordisce questa sudditanza così prona, quasi scaramatica, in un popolo tradizionalmente scettico, incredulo, la gente del Machiavelli, del “particulare” guicciardinesco, del familismo amorale di Banfield a Montegrano. E non lo capiscono, che è tutto un esperimento sociale, solo questo, nient’altro che questo, per testare il livello di sudditanza di un popolo che della libertà non sa più che farsene, la considera un crimine, è passato dall’anarchismo intruppato all’intruppamento puro e semplice.
E non lo capiscono. Nessuna solidarietà, nessuna presa di coscienza: gli italiani si sono consegnati allo Stato etico, che neppure conoscono, che inconsciamente detestano, ma tutto pur di non ragionare, di non decidere. Di non reagire. Si vive male a Roma in tempi di greenpass sotto un cielo plumbeo di inizio febbraio, ci si sente ancora più soli, ancora più diversi. Ancora più malati. Già la metropoli è irriconoscibile, tetra, spenta la sera, regno di fantasmi e di ombre senza storia. Adesso capisco chi se ne vuole andare, chi non la riconosce più e non si riconosce più e non ha voglia di uscire: per andare dove? Per fare cosa? Per sentirsi intimare di continuo uno schermo puntiforme? Per farsi trattare da inferiore, da diverso? Da infame? Adesso capisco la fatica mortificante di chiedere un caffè, di crepare di fame perchè una manica di balordi al potere ha deciso di fartela pagare, anche se ti sei consegnato due, tre volte alla mistica salvifica che non salva, che ti lascia infettare comunque e comunque in un modo quasi impercettibile ormai. Una pura, schifosa questione di potere. Il ricatto dei falliti che dopo una vita di merda hanno colto l’occasione per rifarsi e non guardano in faccia nessuno e non fanno prigionieri. Sì, adesso io capisco quelli che stanotte, tornato a casa, mi scriveranno, mi chiameranno per dirmi che si sentono soffocare, che vogliono fuggire da qui, che non sanno più chi sono, che non hanno più la forza di avventurarsi in un deserto senza tempo e senza pietà, che vogliono uccidersi perchè non ce la fanno più.