Il rock è in effetti vivo, Del Amitri e Teenage Fanclub ce lo dicono chiaramente

Il rock è vivo e vegeto, basta solo sapere dove andarlo a cercare


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Si fa un gran parlare di ritorno del rock. Anzi, si fa un gran dire, oggi, che il rock non è morto. A dirlo, per essere sinceri, tutti coloro che fino a ieri si bagnavano perché la trap era la nuova lingua del mondo, per i talent che avevano rivitalizzato la musica, per l’indie che aveva defibrillato il cantautorato, per lo streaming che aveva salvato in corner capre e cavoli. Come dire, chi aveva inferto gli ultimi colpi al presunto agonizzante rock oggi salta sul carro dei vincitori, e ne canta la rinascita, il glorioso ritorno, le chitarre elettriche, i riff e gli assoli, il mascara e le tuttine, i testi ribelli e non omologati.

Bene. O meglio, male, perché vedere quelli sempre pronti a rinnegare quel che si dicono viene un po’ di malinconia, ma bene se fosse vero che il rock sta di colpo in salute per una vittoria all’Eurovision, che sarebbe come dire che di colpo il calcio non è quella merda fatta di intrallazzi economici, campioni che cambiano maglietta come fossero gli asciugamani buttati alle fan dal vecchio e imbolsito Elvis, perché un tizio ha fatto dei palleggi di testa in una gara dei Giochi senza Frontiere, ma tant’è.

Il rock è vivo e vegeto, gioiamone tutti. Anche chi, è il caso di Cristina Scabbia dei Lacuna Coil, band in odor di metal che da decenni si fa valere in giro per il mondo, USA in particolare, sullo stato di salute del medesimo non aveva dubbi, essendo parte in causa al suo essere vivo. Crediamo seriamente, più che altro, questo ci stanno dicendo in tanti, che di colpo sarà il rock la musica che uscirà dagli smartphone dei ragazzini, allegramente distorta per la scarsa qualità audio dello streaming, Spotify su tutti, che di colpo, di conseguenza, i ragazzini affolleranno i negozi di strumenti per acquistare chitarre, e poi finiranno nelle cantine e nei garage a formare band rumorose e ribelli. Addio trap, è stato breve ma intenso.

E basta fare paragoni col passato, il rock è un canone trito e ritrito, ci dicono, tutto è derivativo, dagli anni Sessanta in qua, il glam c’è già stato, i Led Zeppelin pure, tutti hanno diritto di crescere e evolversi, e ci mancherebbe pure altro.

Il rock è tornato e poco conta che a guardare i cartelloni dei Festival estivi non ve ne sia praticamente traccia, tutto un Colapesce e Dimartino, con la loro Musica leggerissima, canzone che, diciamolo, la cui hype è durata molto meno di quanto ci eravamo detti, lo sottolineo con sollievo, tutto un Willie Peyote, un Ghemon, un Max Gazzè, niente rock, chitarre distorte, batterie pestate, niente di niente. Sarà magari per l’autunno, o per l’inverno, non disperiamo.

Io, personalmente, non credo che avere conoscenza del reale stato del rock sia così rilevante, né credo lo sia sapere se chi decide di andare a Eurovision negando in un nonnulla il senso della propria canzone, autocensurandosi, e sottoponendosi poi a un ridicolo test antidroga, sia o meno aderente a questo genere, mi basta sapere che la band in questione fa musica dozzinale, augurare loro un grande successo e una vita divertente, tornando a occuparmi di cose più serie, rock compreso.

Però, se proprio a qualcuno interessasse sapere cosa intendo io oggi per rock, ma Dio grazia chi me lo chiede in genere non pretende risposte vere, lo fa semplicemente sputandomi addosso il proprio odio, sui social, io avrei altro in mente da una esibizione in playback tra un balletto russo e un gag neanche troppo comica a base di un gigantesco dito medio dei tedeschi, il nome che fare è a sua volta abbastanza bizzarro, dal suono vagamente russeggiante. Parlo dei Del Amitri, band scozzesse che torna a incidere musica dopo una vera e propria vita, diciannove anni. Proveniente da Glasgow, che per il rock britannico è forse la vera capitale assoluta, più di Londra o di Manchester, dai Primal Scream ai Teenage Fanclub, dai Franz Ferdinand ai Mogwai, dai Belle and Sebastian ai Simple Minds, dai The Fratellis ai Travis, davvero troppo lungo l’elenco per star qui a sciorinarlo tutto, la band capitanata da da Justin Currie, a discapito del nome, esotico e naif, ci ha nel tempo proposto una manciata di album assai tradizionali, sulla falsa riga di quello che dall’altra parte dell’oceano ha fatto un gigante come John Mellencamp, andando a costruire un repertorio fatto di ballate e di brani veloci, giocati su strumenti presi dalla tradizione folk ma suonati in chiave assolutamente rock, e soprattutto inseguendo una modalità assolutamente coerente e intelligente, cioè fare musica solo quando si è ispirati. Diciannove anni, del resto, tanti sono passati dal penultimo lavoro di studio, Can You Do Me Good al recente Fatal Mistakes, sono un lasso di tempo sufficiente per mettere insieme una tracklist all’altezza della situazione, e soprattutto dimostrare come il tempo potrà anche passare e imbiancare i capelli, ma se si ha qualcosa da dire la si riesce a dire con la medesima energia e capacità di trasmettere emozioni di quando si era giovani, giovanissimi.

Un ritorno, per altro, che anticipa di poco quello altrettanto meritevole degli stessi Teenage Fanclub, alla prima prova su traccia dopo l’abbandono di uno dei tre membri fondatori e cantanti, Gerald Love, gli altri due, Norman Blake e Raymond McGinley a dividersi le canzoni come prima avveniva in tre parti. Endless Arcade, questo il titolo del nuovo lavoro, è una boccata di ossigeno, uno dei migliori da una bel po’ di tempo a questa parte, seppur la band non sia mai scesa sotto i livelli di guardia, a riprova che il talento non ha età, e che ancora oggi è possibile, volendo, essere originali e matrice da cui gli altri possono andare volendo a copiare, più o meno spudoratamente. Jingle-jungle, cori e voci che si intrecciano creando perfette armonie, giri di chitarra melodica che dialogano alla perfezione con la ritmica, imbastendo un gemellaggio tra Scozia occidentale e California, canzoni i cui testi si fanno forse un po’ troppo malinconici, ma del resto si cresce, si diventa adulti, una certa tristezza comincia a essere una costante. Un gioiello, magari non ai livelli di Bandwagonesque o Thirteen, ma comunque assai bello.

Quindi Fatal Mistakes dei Del Amitri e Endless Arcade dei Teenage Fanclub ci dicono quello che molti stanno scoprendo oggi, per i motivi sbagliati, il rock è vivo e vegeto, basta solo sapere dove andarlo a cercare.

Chiudo con una mia rara occasione di sintesi, rivolta ai più distratti. Se ritenete che il successo sia sintomo di qualità, e per questo sbandierate numeri e classifiche, sappiate che Gangnam Style dovrebbe essere considerato un capolavoro, come Karaoke cantato da Alessandra Amoroso e qualsiasi canzone di Takagi e Ketra. Anche il Pulcino Pio. Non dico che andrebbero considerate hit, quali sono, ma proprio capolavori, la quantità che prende il posto della qualità, il valore artistico che si adegua appunto ai numeri. Per il medesimo motivo dovrei ora star qui a fare un elenco dei dischi che stando al successo dovrebbero proprio far cagare, elenco che però è talmente lungo da non essere riassumibile in poche righe. Il successo è cosa buona, per chi lo rincorre. Anche l’intrattenimento, intendiamoci. Ma il successo in sé non prova assolutamente la qualità artistica di nulla, non usatelo come prova del nove perché, mi spiace, ma in caso state davvero andando fuori strada.