Lo slogan del Concertone del Primo Maggio di quest’anno è “L’Italia si cura con il Lavoro”. Lavoro o sfruttamento?

Tutte le organizzazioni storiche sono state abbandonate per le multinazionali del settore, il risultato è la morìa degli organizzatori piccoli e medio-piccoli


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Quando un articolo o una inchiesta in più puntate sortisce effetto è fatale che chi l’ha scritta venga raggiunto di reazioni, commenti, indiscrezioni private, “ti racconto questa ma tu non la scrivere” che è avvertenza da interpretare come segue: scrivila ma fa’ in modo di non tradirmi, racconta tutto ma noi non ci siamo mai parlati. Il ciclo sui bauli ha sortito i suoi effetti e io mi ritrovo bombardato di reazioni, commenti, segreti di Pulcinella di addetti ai lavori, a vario titolo, dei quali non sempre capisco tutto ma che mi provo a riassumere come segue.
La protesta dei bauli, al Pincio di sabato scorso, era contemporaneamente giusta e sbagliata, nasceva su presupposti sacrosanti ma è stata tradotta male e non solo per i soliti padreterni che hanno scippato la scena; il punto vero essendo che in ballo ci sono le vite delle cosiddette maestranze, gli operai del divertimento, quelli che allestiscono e smontano palchi a rotta di collo. Sono loro i primi e forse gli unici a ritrovarsi alla fame dopo 14 mesi di lockdown che, apprendiamo oggi, ma lo sapevamo fin dall’inizio, “non è misura sanitaria ma politica” come dice il mitologico CTS e vuol dire che serve a scavarsi carriere e dispetti sotto l’ombrello del potere. Appena un gradino sopra gli schiavi dello spettacolo stanno gli avventizi e i precari, quelli che cantano e suonano dove possono e per compensi da fame. A loro spettava la protesta, a loro è stata rubata. Perché dietro un concerto, se ho capito bene le confidenze del manovale, del tecnico, dell’ex impresario costretto a chiudere eccetera, dietro un concerto sta un giro infernale di appalti e subappalti fino all’ultimo anello che è quello poco o per niente garantito. Malati di gigantismo, contagiati dalla megalomania americana e inglese, obbligati da un crollo delle vendite degli album, i concerti sono diventati eventi via via più ipertrofici che richiedono centinaia di addetti per essere allestiti. Gente che arriva al termine di una catena di subaffidi: l’impresario artefice, il nome grosso che fa da trait d’union fra il business e la politica, che monopolizza i festival e i palinsesti televisivi, si affida a un subappaltatore e questo magari a un altro in loco del concerto; al quale restano le briciole, cinque, se va di lusso diecimila euro per un palco che ne costa, ne rende tre o quattrocentomila in una sera: e i costi, gestionali quanto sanitari e di sicurezza, sono suoi. Così può accadere che qualcosa vada storto, che disgraziatamente qualcuno ci lasci o le penne o la salute per sempre, travolto da un amplificatore, triturato da una “americana” o folgorato: allora che si fa? Si piange pubblicamente, si lista a lutto la pagina social, si inneggia a un altro mondo possibile, più equanime, senza sfruttati né sfruttatori, si sognano scenari esotici, cubani, poi ci si asciuga le lacrime e si riparte col vento in poppa per la prossima data.
Le carte ci sono, strati di carte, di regole, di garanzie sindacali che più sono spesse e meno sono osservate, che sono lì per mero legalismo formale. I turni sono continui, perché la macchina del divertimento e dunque degli affari non può fermarsi e metter su un palco faraonico chiede tre giorni di lavoro a ciclo continuo, ventiquattr’ore su ventiquattro, poi, dopo l’ultimo bis, la macchina si rimette in moto per l’operazione inversa, sbaraccare, reimpacchettare e tirar su tutto a due o trecento chilometri. I cantanti sono avidi: sanno che le loro fortune riposano su fatiche improbe, ma non gliene importa granché. Pretendono la concentrazione del tour, più date ravvicinate e non è affar loro se una scenografia oggi richiede il decuplo del lavoro che dieci, venti anni fa. Così succedono gli incidenti, così si stratifica quello stesso sfruttamento contro il quale poi si scende in piazza a fianco dei sommersi rubando loro la scena e qui il cerchio si chiude.
Ragioni per manifestare, per protestare ce n’erano e di ottime. Senonché i dannati dei concerti si sono accontentati di avanzare, affidandole a cantanti militanti, fumose rivendicazioni che parlano di tutto meno che della loro condizione, che chiedono ulteriori leggi quadro in puro sindacalese, e che, in definitiva, si contentano di quattro spiccioli con cui sopravvivere in tempo di paralisi senza fine delle attività. Da cui le proteste, affidate al cronista, “ma noi non ci siamo mai sentiti” o l’amaro sarcasmo che qui non si può riproporre. C’è poi un altro risvolto del quale non si parla e ha ancora a che fare con il senso pratico degli artisti a parole sociali e socialisti. Qui siamo in territorio indie, etichetta che non vuol dire più niente visto che l’indipendenza italiana refluisce tutta nel Sanremo governativo. Che fanno questi cantanti alternativi? Uno via l’altro hanno mollato tutte le organizzazioni storiche che li hanno lanciati, che li hanno imposti, consegnandosi alle multinazionali del settore quali Vivo Concerti ed altre in cambio di pingui anticipi sui tour. Prendi i soldi e scappa! Il risultato è la morìa degli organizzatori piccoli e medio-piccoli e la concentrazione dei tanti sotto l’egida dei pochissimi.
Ma che fa? Loro restano indipendenti dentro, solidali dentro. Vanno a Sanremo, poi, per rifarsi la verginità, al Primo Maggio sindacale due mesi dopo. Poi partono in tour, con la situazione che si è per sommi capi narrata e della quale sono responsabili esattamente come i senatori della musica. Però sempre nel segno dell’impegno e dell’impugno. Lo slogan del Concertone di quest’anno è “L’Italia si cura con il Lavoro”. Lavoro o sfruttamento?