Tra i farisei canterini coi bauli scorgo anche il nome di una che cantante non è, Andrea Delogu

La Delogu non è l'unica a non esser d'accordo con se stessa e ad aver scoperto di essere solidale con i lavoratori dello spettacolo ben 14 mesi dopo l'inizio della crisi

Photo by Mattia Luigi Nappi


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Il pezzo sui farisei canterini coi bauli è andato bene, ha acceso discussioni, è rimbalzato per i social e allora insisto. Per esempio osservando che questa agitazione, andata in scena sabato scorso al Pincio, era nata, come si dice, dal basso ossia per iniziativa delle maestranze dello spettacolo ed è stata scippata dai padroni, i cantanti egocentrici che per 14 mesi si sono voltati dall’altra parte e poi hanno fiutato la doppia occasione: mettersi nella bara al posto del morto e ricostruirsi una verginità. Fra i tanti saliti sui bauli abusivamente scorgo il nome di una che cantante non è, almeno per il momento: è questa Andrea Delogu, di professione simpatica, una che non disturba mai il manovratore; calata anche lei ad esprimere solidarietà ai poveri cristi e a me, come avrebbe detto Gianni Brera, mi prendono gli stranguglioni: Andrea Delogu? A manifestare contro le politiche del governo, contro il lockdown senza fine che strangola il comparto dello spettacolo?
Ma io me la ricordo, questa Delogu, quando un anno fa, alla conduzione della Vita in diretta estate, faceva la sentinella del regime sanitario. Sì, io me la ricordo cazziare con garbata asprezza i cosiddetti negazionisti, i refrattari, me la ricordo ammonire a destra e a manca, mai un dubbio, solo certezze, un rosario quotidiano di così non si fa, bisogna essere prudenti, la sicurezza anzitutto e guai a dimenticarsi la mascherina. Una delle più normalizzate, delle più ortodosse governative, una che come una salamandra passa per tutti i fuochi senza mai scottarsi. Questa signorina Delogu è una perfetta aziendalista, una donna-Rai, la sua carriera è per la gran parte all’ombra del cosiddetto servizio pubblico: i programmi in televisione, le trasmissioni in Radio, i Festival di Sanremo, rigorosamente nella tivù di Stato. Fino agli eventi in Senato, con la presidente Casellati che le consegnava la campanellina ad honorem. Quale honorem? Per servizi resi, si direbbe. Brava, carina, mai una parola fuori posto cioè contro le politiche governative, severa il giusto contro i dissidenti, gli insofferenti: e adesso che ci fa ai bauli? Per dire una manifestazione che contesta le medesime politiche, che accusa lo sfascio di quattordici mesi di blocco che hanno distrutto il circuito dei concerti, degli eventi, hanno messo alla fame non i cantanti supponenti e opportunisti ma i precari, i senza nome e senza santi, e poi gli operai dello spettacolo, quelli che montano e smontano e i cocci sono i loro, quelli per i quali i santini e santoni col microfono adesso manifestano ma per la sola, semplicissima ragione che senza quelli loro non possono più cantare, non possono più guadagnare.
Delogu non è la sola, quelli che non sono d’accordo con loro stessi, che, per dirla con Woody Allen, nutrono idee che non condividono, sono tanti. Magari alla prossima manifestazione degli ultimi, soffocati dai primi, vedremo affacciarsi pure Alberto Matano che tra i conduttori d’ordine è forse il più inflessibile, il più spietato (ancora ieri al suo programma hanno organizzato una bella gogna per il negazionista Miguel Bosé, tenuto in fama di reprobo). Poi si potrà dire: ma sì, anche lei ha da campare, è una che ha capito come gira il mondo e che cosa le vuoi rimproverare?
Ma il fatalismo complice da “siamo italiani, siamo fatti così” regge fino a un certo punto. Se il comparto dei concerti e degli spettacoli si ritrova come un cavallo morente è anche per l’opportunismo di chi in 14 mesi poteva parlare e non ha parlato (se non per obbedire), poteva agire e si è negato, poteva difendere una coerenza e se ne è sbattuto. E le loro voci avrebbero avuto, forse, un peso. E il loro esempio sarebbe stato, forse, contagioso. Hanno pensato esclusivamente a loro stessi, alle rendite di posizione, alle opportunità da difendere. Hanno lasciato che i poveri schiavi affondassero, e poi sono scesi in piazza e hanno occupato i loro bauli. E adesso, senz’ombra di imbarazzo, sono pronti a ripartire con la loro faccia di tolla all’insegna del doppio standard, “di lotta e di governo” ma soprattutto di governo. Ossia di servizio pubblico. E già incombe il concertone sindacale, dei sindacati che stanno dalla parte del regime sanitario e difendono il principale responsabile, quel ministro Speranza per il quale firmano a sigle riunite. E chi c’è al concertone retorico e filogovernativo, che con cinismo vergognoso ha scelto come egida “L’Italia si salva col lavoro”? Gli alfieri di Sanremo in prima fila e su tutti Piero Pelù, il ribelle ipocondriaco, quello che si vanta di girare con tre mascherine una sopra l’altra, di tamponarsi tutti i giorni e che non ha mai azzardato la minima critica in 14 mesi di cattività; se critica ha emesso, è stata per chi non si adeguava. Che rocker!
Sì, certo, pure questi devono campare e infatti campano, giocano su tutti i tavoli e, proprio come salamandre, non si bruciano mai. Bravi loro, certo però che lo spettacolo delle donne e degli uomini d’ordine che riscoprono la solidarietà verso quelli che, a loro modo, hanno contribuito a lasciare affogare, è fastidioso, è insopportabile come un’ulcera che si risveglia.