Il film più bello da vedere su Netflix? The Other Side Of The Wind di Orson Welles, ovvio

Due anni fa, grazie ai capitali della piattaforma, ha visto la luce il film maledetto di Welles, in attesa di essere ultimato da quarant’anni. È un’opera affascinante. Che ha fatto capire come Netflix e il cinema possano collaborare. La quarantena è il momento gusto per vederlo

The Other Side Of The Wind

The Other Side Of The Wind


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Oggi, più che mai durante questa disgraziata emergenza del Coronavirus, diamo per scontato che la rete sia la fonte cui abbeverarsi per qualunque tipo di racconto in immagini, compresi quelli più raffinati e d’autore. Diciamoci la verità, senza Netflix e i suoi omologhi, in questi giorni di quarantenta saremmo spacciati. Eppure basta tornare indietro di non più di due anni per ritrovarsi immersi in un acceso dibattito “streaming vs cinema” – che adesso sembra archeologia –, con tante opinioni di cinefili intransigenti che difendevano l’esperienza della visione in sala, “pura”, “irripetibile”, dagli assalti delle piattaforme on line.

Cos’è che ha fatto cambiare opinione così rapidamente e a così tanta gente? Il mutamento di paradigma che oggi ci fa ritenere i player dello streaming non dei semplici nemici del cinema, ma i soggetti di una filiera in cui sono possibili anzi necessarie forme di dialogo, non è avvenuto al seguito di un singolo avvenimento. È stato fondamentale il caso Roma, il film d’autore di Alfonso Cuarón, col quale, grazie a una strategia aggressiva e lungimirante Netflix è entrata nel salotto buono del cinema, vincendo il Leone d’Oro a Venezia, Golden Globes e premi Oscar. Un altro, sicuramente, è stato il caso di The Other Side Of The Wind, una delle mosse più intelligenti di Netflix, che ha ammorbidito persino le più riottose vestali della settima arte.

The Other Side Of The Wind, un film fantasma

Che cos’è The Other Side of the Wind? È il film fantasma che Orson Welles ha inseguito per anni, l’ultima delle grandi opere incompiute del maestro che dell’incompiutezza ha fatto una poetica. Quasi il simbolo di un artista il cui cinema è sempre ruotato intorno al concetto di fallimento: quello dei suoi personaggi titanici destinati a dissipare la vita, e quello di produzioni economicamente traballanti, che hanno impedito a diversi suoi progetti di vedere la luce in versioni attendibili. In questo senso The Other Side of the Wind è esemplare: il regista ci lavorò a singhiozzo tra il 1970 e il 1976, senza riuscire a ultimarlo.

Alla fine Welles aveva accumulato quasi cento ore di girato che, dopo la sua morte nel 1985, per complesse questioni di diritti erano finite stipate dentro l’istituto di cultura iraniano a Parigi, perché tra gli originari produttori c’era il cognato della Scià di Persia. Ed ecco che, dopo oltre quarant’anni, è intervenuta Netflix, che grazie ai suoi ingenti capitali – e agli amici di Welles che hanno seguito il progetto, da Peter Bogdanovich a Frank Marshall, direttore di produzione del film al tempo delle riprese – è riuscita a sbloccare la situazione. E così, coinvolgendo il montatore premio Oscar Bob Murawski, si è riusciti a editare una versione del film di circa due ore, che dalla fine del 2018 è disponibile nel catalogo on line. L’operazione, senza dubbio, fu intrapresa per smorzare le resistenze dei cinefili e far capire loro che Netflix non va considerata un nemico, ma un alleato del cinema, che può aiutare persino a tutelarne il patrimonio di classici.

Adesso The Other Side of the Wind esiste. Ha senso chiedersi se, filologicamente, sia un’opera di Orson Welles? Forse no. Però su quei lidi di indiscutibile, di “fissato una volta per tutte”, come dicevamo, c’è ben poco. Dietro ogni suo film tranne il primo, Quarto Potere, c’è una vicenda tortuosa di insuccessi, ritardi, battaglie coi produttori, ricerche d’improbabili investitori, sequenze girate a pezzi e bocconi durante gli anni e in qualunque luogo possibile pur di mettere insieme un oggetto che assomigli a un film, se non ultimato, possibile.

Cinema nel cinema

The Other Side of the Wind è un film possibile, nella forma non definitiva in cui lo vediamo. Il migliore dei film possibili, ma non per questo l’unico possibile. La storia è indiscutibilmente wellesiana. Ancora una volta, come per il Charles Foster Kane di Quarto Potere, il Gregory Arkadin di Rapporto Confidenziale, il Charles Clay di Storia Immortale, al centro del racconto c’è un personaggio grandioso e misterioso, che resta un enigma per gli altri e per sé stesso. Stavolta si chiama Jake Hannaford (un magnetico John Huston), regista settantenne, ex titano di Hollywood ormai fuori dai giochi, che cerca di rilanciare la sua carriera con un filmetto pieno di erotismo, psichedelia, corpi giovani e invitanti come chiede la moda del cinema degli anni Settanta – nelle sequenze del film nel film sono evidenti gli ammiccamenti a opere come Zabriskie Point, con quei pensosi silenzi antonioniani che non significano un bel niente.

Questi elementi li apprendiamo dalla rutilante corte dei miracoli che s’aggira attorno al maestro, assistenti, sceneggiatori, critici, documentaristi, tutti invitati alla festa di compleanno del regista. Per essere assolutamente chiaro circa il tenore di questo bizzarro carnevale, Welles ci infila anche nani e pupazzi che riproducono le fattezze del prim’attore John Dale (Robert Random), del quale si sono perse misteriosamente le tracce.

Al party tutti avidamente filmano tutto, per volere dello stesso Hannaford: «Stasera niente deve essere nascosto», dice. Allora i documentaristi registrano brandelli di quella che confidano essere la realtà, accumulando una quantità di materiale sterminato, che fa urlare inferocito uno scafato assistente di Hannaford: «Cosa ci farete con tutte quelle riprese? Ci metterete anni, mentre noi alla fine avremo un film. Un film!».

John Huston e Orson Welles sul set

E il film, The Other Side of the Wind, è una modernissima congerie di materiali diversi, pezzi girati in 35 e 16 millimetri, super 8, bianco/nero e colore, tra documentario, cinema e film nel film iperpsichedelico – con anche alcune parti montate dallo stesso Welles e note da tempo, bellissime.

Un caleidoscopio di formati e colori, dove la differenza tra verità e finzione non fa nemmeno questione, ed è tutto palesemente, se non falso, recitato. È il labirinto definitivo del cinema wellesiano, cui si aggiunge, in un montaggio frenetico, il festival delle facce, delle sentenze sputate a destra e a manca dai vecchi del team di Hannaford, che a partire dallo stesso regista s’atteggiano a pose alla Hemingway da uomini vissuti.

Ci sono l’allievo regista Brooks Otterlake (Peter Bogdanovich), che ha fatto un film milionario, superando così l’odiosamato maestro. I critici molesti e ossessivi, che fanno domande su realtà e obiettivo, la differenze tra zoom e carrello, la camera come simbolo fallico. La critica delle critiche Julie Rich (Susan Strasberg), modellata sulla temutissima Pauline Kael, la quale convinta di cogliere il segreto recondito della personalità del regista dice che “ciò che crea distrugge, è compulsivo”.

Welles, per accontentare i critici alla ricerca di significati, i simboli psicoanalitici glieli offre in pasto: l’omosessualità repressa del supermacho Hannaford, i doppi dei pupazzi cui sparano il regista e la prima attrice (Oja Kodar), una gigantesca figura fallica che si affloscia nel prefinale. Ma sono false piste. Ciò che conta, e che davvero s’affloscia, è il film. Che, letteralmente, non c’è. Il produttore invitato a una visione privata da Hannaford nella speranza che sganci un po’ di dollari si lamenta per tutti quegli inserti su nero con la scritta “Inquadratura mancante” e per una storia che non si capisce dove vada a parare. Non va meglio con l’attesa proiezione durante la festa, perché la corrente salta continuamente. Veniamo pure a sapere che il prim’attore è scappato dal set, e dunque di portare a termine il progetto non c’è speranza.

E quando il presunto finale del film di Hannaford viene proiettato in esterna, al drive in, la cosa ormai non importa più a nessuno, e a vederlo resta solo Oja Kodar. Un cinema senza più spettatori insomma. Forse una prefigurazione della situazione di questo ventunesimo secolo, in cui il cinema, arte del Novecento, sta lasciando il posto a nuovi linguaggi e contenitori. I quali però, proprio come nel caso di The Other Side Of The Wind con Netflix, a quel cinema classico possono assicurare una forma di sopravvivenza.