Il traditore, Bellocchio e Favino raccontano l’enigma tragico di Tommaso Buscetta (recensione)

Vent’anni di mafia raccontati attraverso la lente del “boss dei due mondi”. Una storia di famiglie e tradimenti, padri e figli, e di un criminale che rinnegò la cupola e forse anche sé stesso. Magnifico Favino in un cast di prim’ordine.

Il traditore

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Ne Il traditore, salutato da un lungo applauso a Cannes, unico film italiano in concorso, Marco Bellocchio si confronta con la storia di Tommaso Buscetta e della mafia, tema per sua stessa ammissione piuttosto lontano dalle sue corde. L’estraneità però ha consentito al regista piacentino di smarcarsi dalle usuali (e usurate) rappresentazioni della criminalità organizzata, oscillanti tra ambigua epica gomorresca e realismo più o meno documentario.

Bellocchio da un lato punta su una ricostruzione puntuale con tanto di didascalie esplicative, di vent’anni di storia mafiosa – e d’Italia –, partendo dal 1980 della guerra tra Stefano Bontate e Totò Riina, passando per il maxiprocesso e giungendo fino al processo Andreotti e alla morte nel 2000 di Buscetta, il “boss dei due mondi”. Dall’altro il regista scava dentro questa vicenda individuale e collettiva, trovando una chiave che gli consenta di riportare il racconto sul terreno della sua poetica, attraverso il tema centrale della famiglia, caratteristico del suo cinema sin dal lontano esordio de I pugni in tasca.

Il traditore comincia nel 1980, come fosse la saga del Padrino di Coppola, con una cerimonia, alla quale partecipano molti boss di spicco e in cui Buscetta è insieme alla sua vecchia famiglia siciliana che però abbandonerà presto, tornando in Sudamerica dalla sua compagna brasiliana Cristina (Maria Fernanda Cândido). Mentre lui è via, si scatena il conflitto tra le opposte fazioni, vinto da Riina. Due figli di Buscetta vengono torturati e uccisi per mano di Pippo Calò, che li conosceva sin da bambini, essendo molto legato al boss dei due mondi – una foto mostra Calò poggiare quasi paternamente le sue mani sulle spalle di Buscetta. Il quale, quando decide di collaborare con la giustizia, racconta al giudice Falcone – la cui figura resta volutamente defilata – la storia singolare di un assassinio commissionatogli dalla cupola, che lui non riesce a eseguire perché il suo obiettivo si fa scudo del figlio piccolo, cingendogli le spalle – perciò Buscetta, convinto “uomo d’onore”, non può ucciderlo. Questo viscerale legame protettivo col figlio si protrae fino a quando quest’ultimo, ormai adulto, si sposa, formando a sua volta una nuova famiglia e lasciando solo il padre. A quel punto Buscetta potrà intervenire.

Questo racconto apertamente simbolico sintetizza la prospettiva de Il traditore: che è una storia tragica di padri e figli, reali e putativi, e di un’organizzazione che si autodefinisce famiglia. In cui però legami di sangue e onore restano solo parole, disattese dai fatti. Per questo Bellocchio si concentra sulla natura ambigua, recitata delle parole, mostrando i serrati confronti processuali tra il “traditore” Buscetta e i mafiosi. Quello con Calò (Fabrizio Ferracane, molto bravo), drammatico per il rapporto che lega i due uomini; e quello con Riina (Nicola Calì), all’insegna d’una estraneità anche caratteriale – perché Riina è un uomo solo, mosso da una sfrenata sete di potere, che persino quando i mafiosi brindano orribilmente alla morte di Falcone resta in disparte, chiuso nelle sua cupe ossessioni.

Ossessionati i capi della cupola appaiono anche in un momento di accensione visionaria de Il traditore, quando nel carcere di massima sicurezza dell’Asinara s’aggirano come animali in gabbia mentre lo schermo televisivo nella cella rimanda in loop le immagini (autentiche) della straziante orazione funebre di Rosaria Costa, la vedova dell’agente Vito Schifani ucciso nella strage di Capaci. Parole di lancinante verità che testimoniano un sentimento d’amore familiare autentico, agli antipodi dell’eterna messa in scena dei mafiosi, fatta di parole di simulazione e mascheramento.

Nell’oscillazione tra i due poli estremi della verità e della maschera, della fedeltà dichiarata alla famiglia e del tradimento, si pone Buscetta, che trova in Pierfrancesco Favino un interprete ideale per la sua immedesimazione critica, che riproduce la fisicità massiccia di un uomo di estrazione contadina che finge un’eleganza che non gli è naturale, restituendone l’enigma di individuo insieme coraggioso e disperato, leale e calcolatore, legato alla propria famiglia (anche e soprattutto mafiosa) eppure capace di abbandonare i figli per rifarsi una vita.

Il Tommaso Buscetta di Bellocchio e Favino non è un eroe, né tantomeno il mafioso buono “di una volta” (che esiste solo nei fasulli racconti autocelebrativi dei criminali) in mezzo ai mafiosi cattivi di oggi – per evitare qualunque esaltazione del personaggio, il regista confezione un finale inequivocabile. Invece è un personaggio autenticamente tragico, proprio per questa oscillazione perenne tra simulazione – è vero il suo tentativo di suicidio? – e sincerità.

Tragico lo è Buscetta anche nella sua diversità caratteriale – un tratto sottolineato spesso nei suoi libri-intervista –, con un gusto per la vita (e la bella vita) lontano dall’ipocrita moralismo mafioso, come traspare dal rapporto intenso, intimo con Cristina. Il suo tradimento dell’organizzazione, perciò, è molto più complesso psicologicamente rispetto a quello di altri collaboratori di giustizia. Come Salvatore Contorno (Luigi Lo Cascio, anche lui in parte), un pentito che resta però tutto interno alla logica della vendetta mafiosa. Infatti è incapace di uscire dal dialetto stretto, mentre Buscetta si muove in un complesso pastiche di siciliano, portoghese, italiano, spia di questo desiderio di marcare una distanza tra sé e gli altri criminali.

Le categorie del tradimento e della famiglia, indissolubilmente connesse, ricapitolano l’intera identità mafiosa e il significato del film, trovando nella parabola di Tommaso Buscetta una sua versione dolorosa e paradigmatica. Un uomo visceralmente legato a quel mondo e a quella cultura – al punto di affermare di essere lui un vero mafioso, non gli altri che hanno disatteso gli ideali dell’organizzazione –, e per la sua fedeltà destinato a uscirne sconfitto. Figlio tradito da quelli che riconosce nonostante tutto come suoi padri (Calò riveste idealmente questo ruolo) e a sua volta padre traditore dei suoi figli, che abbandona forse con rimorso, ma senza ripensamenti. In questo nodo inestricabile, cui Bellocchio e Favino guardano senza concedere empatia al personaggio, Il traditore trova la sua cifra più alta e un modo intelligente e problematico per raccontare la mafia.