La casa di Jack, le provocazioni di Lars von Trier ormai girano a vuoto (recensione)

Un assassino seriale per cui il crimine è un'opera d'arte. E un regista per il quale il cinema è una forma di crimine. Von trier si traveste da serial killer e si fa l'autoanalisi. Un film confuso e compiaciuto, che non indigna nessuno.

La casa di Jack

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All’anteprima a Cannes del 2018, dove Lars von Trier era tornato dopo essere stato dichiarato nel 2011 “persona non gradita” – per certe discutibili dichiarazioni su Hitler, ma lui sostiene che sia tutto un malinteso – La casa di Jack (The House That Jack Built, 2018) era stato salutato da molti sbadigli, nonostante si parlasse dell’efferata storia criminale di un serial killer che tortura e uccide donne e bambini.

Sembrava che la proverbiale propensione alla provocazione del regista danese non fosse più in grado di colpire. In realtà qualcosa ancora succede, visto che in Italia il film esce oggi in due versioni, una edulcorata in italiano e l’altra senza tagli, in lingua originale e vietata i minori di 18 anni, che promette sevizie per stomaci forti. Con in più la dichiarazione di Sandro Parenzo, presidente di Videa che l’ha distribuito, che prende le distanze dall’autore ma non dal film: “Da alcuni anni detesto Lars von Trier come persona, per le sue scellerate affermazioni, per il suo antisemitismo […] con questo spirito distribuisco oggi il suo ultimo film, perché ne La casa di Jack, c’è più cinema, più delirante passione, che nel 90% dei film che normalmente escono”.

Cosa succede ne La casa di Jack? Molto, tanto, troppo. Storia ambientata nell’America degli anni Settanta: Jack (Matt Dillon) è un serial killer che, parlando con un tale Virgilio – si sente solo la sua voce, nel finale scopriremo essere Bruno Ganz, appena scomparso –, ripercorre la sua storia attraverso cinque “incidenti”, così li chiama, cinque crudelissimi e immotivati omicidi. Purtroppo, approfittando del dialogo in voice over, le vicende narrate vengono condite di un livello di secondo grado che, nel mentre lo spettatore vede scorrere gli accadimenti, spiega e approfondisce le ragioni sottostanti ai suoi gesti.

La ragione principale è la propensione creativa di Jack, teorizzatore dell’assassinio come opera d’arte. Infatti la collezione di corpi uccisi, talvolta orrendamente mutilati che lui conserva meticolosamente in una cella frigorifera – è affetto da un disturbo ossessivo compulsivo, lo sa bene – gli serve per la realizzazione di una macabra installazione che scopriremo alla fine.

L’arte per Jack è un obiettivo cui si può ben sacrificare la morale. Di qui disquisizioni su etica ed estetica in cui trovano spazio, tra gli altri: Glenn Gould; William Blake e le poesie sulla tigre e l’agnello, per parlare di repressione e perdita dell’innocenza; un celebre quadro di Eugène Delacroix, La barca di Dante, in una riproduzione modello tableau vivant, piuttosto sgargiante; Matt Dillon che fa il verso al Bob Dylan del documentario Don’t Look Back, quando mostra i cartelli con il testo del brano che sta cantando (perché?); la paradossale intimità tra orrore e cultura testimoniata dalla quercia sotto cui Goethe scriveva, posta accanto al lager di Buchenwald; la teoria delle rovine dell’architetto del nazismo Albert Speer, con continui riferimenti ai totalitarismi con tanto di immagini di repertorio di Hitler, Mussolini, Stalin, Mao Zedong; e poi, visto che c’è Virgilio, la trasformazione del film da discesa metaforica negli inferi d’una psiche contorta, in vera e propria Divina Commedia, sconfinando nel kitsch.

Matt Dillon versione Bob Dylan ne “La casa di Jack”.

La casa di Jack dà un colpo al cerchio e uno alla botte, saltando e intrecciando riflessione filosofica e shock emotivi, con un gusto per la violenza gratuita – cric in pieno volto, battute di caccia con donne e bambini come prede, lenti soffocamenti, seni mutilati trasformati in borsellini. Una disinvolta mescolanza di alto e basso che serve a von Trier, oltre che per esibire il suo usuale sadismo, anche per portare avanti una riflessione autoassolutoria e giustificazionista incentrata su sé stesso e il proprio cinema.

Perciò La casa di Jack è piena di inserti didascalico-didattici che forniscono delle precise interpretazioni di tutto quanto si vede sullo schermo. E nel fornirle, con una forma di consapevolezza di secondo grado, von Trier ci ironizza anche su – “So che non potrò sfuggire a un esaustivo tutorial”, dice Virgilio a Jack, ben sapendo che gli verrà inflitta un’altra spiegazione. Così von Trier non solo mostra di essere perfettamente conscio del significato del suo film, ma anche di quanto sia paradossale che sia lui stesso a mettersi a interpretarlo. Che è anche un modo, ponendo le mani avanti, per autodenunciarsi quale autore titanico affetto da paranoia del controllo (il disturbo ossessivo compulsivo di cui sopra), prima che provi a farlo qualcun altro.

Ne esce fuori un film apertamente “teorico”, attraversato da tensioni di ordine: metalinguistico, per la riflessione sulla natura del mezzo cinematografico e l’atto della visione (forse persino con qualche suggestione proveniente da L’occhio che uccide di Michael Powell); estetico ed etico, che cos’è l’arte e quali sono i suoi confini morali (in sostanza, nessuno); psicoanalitico, per la connessione tra pulsioni e creatività.

Però la teoresi de La casa di Jack resta velleitaria, perché ingombrata, attraverso l’appena velato travestimento del criminale-artista Jack, dal sé stesso cui von Trier fa l’autoanalisi lungo tutto il film, mettendosi in scena e raccontandosi impudicamente. Con Jack-Lars che si pone le domande, si fa le obiezioni (tramite il controcanto di Virgilio) e si dà le risposte, in uno sfrenato solipsismo narcisista.

La casa di Jack è un compiaciuto autoritratto in cui von Trier si ritaglia il ruolo di colpevole e giudice, paziente e analista, regista demiurgo e critico cinematografico. Un film nel quale gli spettatori sono relegati in un ruolo inerte e passivo – con una battuta si potrebbe dire che, parallelamente alle vittime, anche loro vengono torturati. E in effetti non è agilissimo uscire dalla visione interminabile di oltre due ore e mezza mortifere, che lasciano pure la sensazione di una impasse creativa quasi terminale. Che è forse l’unica nota sincera di un film nel quale, come sempre con Lars von Trier, è difficile capire fino a che punto l’autore ci è o ci fa.