Happy End, il cinema dello sconforto di Michael Haneke (recensione)

Il maestro austriaco racconta il disfacimento di una famiglia dell’alta borghesia francese. Lo sguardo è impassibile come sempre. Ma il settantacinquenne regista spiazza con uno stile che non rinuncia a sperimentare. Apparentemente distaccato, ma profondamente morale.

Happy End, l’ultimo film di Michael Haneke

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Happy End è un titolo intriso di livido sarcasmo. Perché non c’è niente che rimandi alla felicità nell’ultimo film di Michael Haneke. E non c’è nemmeno il sollievo d’una fine, d’un punto d’arrivo nella storia d’impassibile disfacimento d’una famiglia altoborghese francese, destinata a ripetersi malinconicamente – tragicamente – all’infinito.

La vicenda è ambientata a Calais, luogo di transito dei migranti, che però restano sullo sfondo in Happy End, perché non costituiscono in alcuno modo il centro delle preoccupazioni della famiglia Laurent, egoisticamente ripiegata sul proprio microcosmo malsano. C’è il patriarca (Jean-Louis Trintignant; il personaggio, si capisce da alcuni accenni, è lo stesso di Amour), anziano ex imprenditore edile che vuole solo farla finita; l’algida figlia Anne (Isabelle Huppert), erede dell’impero alle prese con la crisi economica, l’altro figlio Thomas (Mathieu Kassowitz), anaffettivo traditore seriale che colleziona mogli e amanti.

Nel traballante sistema s’insinua la tredicenne Eve (Fantine Harduin), figlia del primo matrimonio di Thomas, accolta dopo un’intossicazione da barbiturici della madre. Ma non è esattamente l’incarnazione dell’innocenza questa ragazzina che alterna il pianto all’indifferenza con cui registra attraverso la videocamera del cellulare le sofferenze altrui (filma il criceto cui somministra degli antidepressivi per vedere l’effetto che fa).

Comincia così Happy End, un inizio folgorante in cui l’enorme schermo cinematografico è ridotto all’asfittico spazio verticale del visore del telefonino su cui Eve riprende, commentandolo in una conversazione WhatsApp, tutto quello che accade. E se da un lato questa scelta rimanda allo sguardo delle telecamere di videosorveglianza di Niente da nascondere, allo stesso tempo restituisce corposamente l’idea di un mondo che ha ormai ristretto i propri orizzonti, anche morali, per i quali basta e avanza lo spazio angusto d’uno schermo del cellulare.

È il racconto di una fine già avvenuta Happy End, in cui nessuno più esprime sentimenti, slanci o ideali che guardino al futuro. E infatti più d’un personaggio è tentato da – e tenta – il suicidio. Nel frattempo, i simboli non potrebbero essere più chiari, il patriarca è ridotto su una sedia a rotelle e il cantiere dell’impresa di famiglia, letteralmente, frana. Ma i Laurent, come in un film di Buñuel – ma senza ironia – o in uno di quegli inferni borghesi alla Bellocchio – ma senza esplosioni di rabbia – continuano a mangiare apparentemente imperturbabili a una tavola elegantemente imbandita.

Happy End ricapitola tutto il cinema di Haneke, con una coerenza ammirevole e una freschezza sperimentale – la capacità di mescolare linguaggi e formati – che non possono far parlare di una stanca ripetizione di stilemi già visti. Certo è un ritratto sconfortante, reso ancora più cupo dallo sguardo che si posa apparentemente indifferente sulle cose, restituendole con freddezza muta e oggettiva. Ma ribolle sotto la superficie un autentico punto di vista morale – anche moralista – di un autore che sa di non potersi ritenere al di sopra delle parti dato che, come Eve, continua a riprendere atrocemente ogni cosa, forse ormai persino incerto del perché lo fa.