Timbuktu, stasera in prima tv il bel film africano sul fondamentalismo islamico

Candidato anche all’Oscar, il film di Abderrahmane Sissako è una convincente analisi del jihaidismo. Raccontato non come astratta ideologia, ma concretamente incarnato in uomini reali, imperfetti, ipocriti, meschini. Un'opera che, emozionando, aiuta davvero a capire.

Timbuktu, stasera in prima tv il film sul fondamentalismo islamico

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Qualche giorno dopo la strage di Charlie Hebdo, nel gennaio del 2015, il sindaco di Villiers-sur-Marne, comune alle porte di Parigi, cercò di vietare la proiezione di Timbuktu, sostenendo che il film costituisse un’apologia del terrorismo islamico. Non si comportarono diversamente gli organizzatori del FESPACO film festival, in Burkina Faso, che nel marzo 2015 cancellarono il film dal programma della manifestazione per ragioni di “sicurezza”.

Naturalmente, il film del regista nativo del Mali, Abderrahmane Sissako, uscito nel 2014 e stasera in prima tv su Rai Tre alle 21.20, è tutt’altro che un’apologia del fondamentalismo islamico. E le sue intenzioni sono state largamente comprese, dato che Timbuktu, dopo gli elogi raccolti al concorso del festival di Cannes del 2014, ha ottenuto la candidatura all’Oscar come miglior film straniero nel 2015 e ha vinto ben 7 premi César, il più alto riconoscimento del cinema francese, tra cui miglior film e regia.

Il disagio creato da Timbuktu dipende dalla scelta di Abderrahmane Sissako di puntare su una rappresentazione contradditoria della realtà, scavando all’interno del fenomeno jihad, andando oltre l’immagine compatta che lo stesso radicalismo islamico così accortamente e consapevolmente diffonde, con un processo di decostruzione dall’interno che, ritraendo i cosiddetti fanatici nella loro quotidianità, con le loro piccinerie e meschinerie, mostra tutto il fondo di ipocrisia, e di debolezza, di questo supposto integralismo.

Sissako ambienta la vicenda a Timbuktu in Mauritania, nel 2012, quando il nord del paese a seguito di un colpo di Stato venne dichiarato indipendente dai nazionalisti separatisti, che però persero rapidamente il potere, sostituiti dai gruppi islamisti. I quali, dunque, quasi dal nulla, imposero la Sharia a un paese con lingua e cultura nettamente diverse. Così la jihad, invece che espressione di una fede monolitica, viene raccontata attraverso un continuo processo di negoziazione, con i fondamentalisti che, un giorno dopo l’altro, emettono nuove norme incomprensibili, costringendo i locali a rispettarle: l’obbligo di indossare guanti – cui si ribella una semplice pescivendola che, protesta, così non può più lavorare –, il divieto di suonare – che permetta al regista di costruire una bellissima sequenza con la grande cantante del Mali Fatoumata Diawara – o di giocare a calcio – cui la popolazione reagisce inscenando una partita senza pallone, immagine forse un po’ facile, ma incredibilmente toccante.

Timbuktu così s’arricchisce di sfumature e in questo stridente confronto tra due mondi diversi, ognuno si mostra per ciò che realmente è nei suoi gesti e scelte quotidiane, non più al riparo dell’astratta sicurezza ideologica. E sono infatti pieni di incertezze i fondamentalisti arroganti, che fumano, hanno pulsioni sessuali e dubbi sull’incrollabilità della propria fede – la sequenza rivelativa di un ex rapper convertito che, non intimamente convinto, non riesce a essere convincente nel video propagandistico che deve girare.

E se il ritratto delle debolezze dei radicali islamici conduce a una qual certa loro “umanizzazione” – ciò che preoccupava il sindaco francese –, il risultato finale è tutt’altro che apologetico. “Rappresentare i jihadisti semplicemente come dei cattivi che non ci assomigliano in nessun modo – ha dichiarato il regista al Times – non corrisponde alla verità. I jihaidisti sono anche degli esseri umani fragili. E la fragilità è un elemento che può ribaltarsi nel suo opposto, e condurre all’orrore”. In poche parole, è proprio dentro quelle insicurezze che scava la sete di integralismo che sfocia poi in violenze immotivate e incontrollabili.

Proprio su questa duplicità psicologica – in un film che rifiuta però qualunque psicologismo e s’appoggia su una messinscena fisica di volti, oggetti e paesaggi maestosi – si modula il ritmo del racconto di Timbuktu. La prima parte, infatti, mantiene un tono quasi allusivo, mostrando il volto meno brutale d’un potere che pare capace di stabilirsi con modalità relativamente cruente, quasi dialoganti. Ma poi la piega diventa inequivocabile, quando la storia si concentra su Kidane (Ibrahim Ahmed), un pastore che vive fuori dal villaggio con moglie e figlia, il quale commette accidentalmente un crimine per il quale è posto sotto processo, rischiando la condanna a morte.

Da qui in poi Timbuktu deflagra, mostrando l’ottusità dell’integralismo, capace persino di condannare esseri umani alla lapidazione per motivi futilissimi. Sempre però, mirabilmente, Abderrahmane Sissako restituisce la violenza con una presa di distanza anche fisica, impiegando campi lunghissimi e inquadrature di scorcio: una scelta sia antispettacolare che di moralità della visione, che sottrae automaticamente Timbuktu alla tentazione del film con messaggio e parole d’ordine – che costituirebbero un’altra forma di integralismo.

Timbuktu è un film esemplare, anche per la capacità di mescolare il realismo della messinscena ad accensioni simboliche mai pedanti: la “resistenza” della partita a calcio cui accennavamo; la similitudine tra l’antilope in fuga dai cacciatori e la figlia di Kidane che scappa disperata; gli integralisti che, parlando arabo, hanno bisogno di interpreti per far capire alla popolazione locale il senso delle loro leggi che, appunto, sono insensate e incomprensibili – purtroppo nella versione italiana, che doppia i dialetti locali e mantiene l’originale per arabo, francese e inglese, queste essenziali sfumature si perdono. Ma anche così Timbuktu resta molto bello, operazione anche di grande intelligenza per la sua capacità di raccontare la dimensione quotidiana, quasi dimessa, della violenza, aiutandoci a comprenderne ancora meglio le dinamiche, così da rendere il rifiuto del fondamentalismo islamico non solo più netto, ma soprattutto più consapevole.

Timbuktu (2014) di Abderrahmane Sissako, con Ibrahim Ahmed, Toulou Kiki, Abel Jafri, Fatoumata Diawara, stasera in rima tv su Rai Tre, ore 21.20.