Parliamo delle mie donne, Claude Lelouch allo specchio (recensione)

Il regista francese racconta la storia autobiografica di un fotografo con la faccia di Johnny Hallyday che, come lui, ha avuto successo, molte donne, tante figlie. Un film dei suoi, compiaciuto, sentimentale e un po’ fasullo. Ma è un cinema d’altri tempi di cui s’è perduto lo stampo.

Parliamo delle mie donne, Lelouch e l’alter ego Hallyday

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È chiaramente l’alter ego di Claude Lelouch questo Jacques Kaminski, leggendario fotografo con la faccia gaglioffa e vissuta di Johnny Hallyday, protagonista del 44esimo film del regista transalpino Parliamo delle mie donne (che edulcora l’originale Salaud, on t’aime, “Bastardo, ti amiamo”). Entrambi hanno superato i settanta (Lelouch è del 1937), entrambi hanno guardato sempre la realtà attraverso l’obiettivo, entrambi, soprattutto, hanno molto amato, il regista collezionando 7 figli avuti da cinque madri diverse, il fotografo “solo” quattro femmine (coi nomi delle quattro stagioni!) da altrettante compagne.

È un film molto autobiografico quindi, e quintessenzialmente alla Lelouch – anche se per una volta c’è unità di tempo e luogo –, con una sarabanda di personaggi, figlie, amanti vecchie e nuove, tantissimi animali (un’aquila che scruta severa i protagonisti, e cani gatti volpi mucche) che ruotano intorno all’irresistibile narciso Jacques. Il quale nell’autunno inoltrato dell’esistenza ha deciso, se non di mettere la testa a posto, di diventare il padre che non è mai stato, facendo il possibile per recuperare il rapporto con le figlie – oscillanti tra i quaranta e i diciott’anni – che nella sua vita passata a rincorrere lo scatto perfetto ha sempre trascurato.

Jacques ha appena acquistata una bellissima baita alpestre – l’ambiente sociale è inequivocabilmente benestante – e lì finiscono per arrivare, tutte lo stesso giorno, le sue ragazze, complice il più caro amico del protagonista, Frédéric (Eddy Mitchell), anche suo medico, il quale ha detto loro una bugia (o forse no?) sul padre per farle accorrere. Va in scena il gran teatro della vita in Parliamo delle mie donne, tra sfuriate, sensi di colpa, riappacificazioni, rimorsi e nostalgie, con in più il convitato di pietra della morte – parliamo pur sempre d’un uomo giunto ai bilanci della vecchiaia – a rendere dolceamaro il sapore di questo racconto apparentemente pacificato.

Johnny Hallyday e Claude Lelouch sul set de “Parliamo delle mie donne”.

La storia segue il filo d’un autocompiacimento esibito, con sentimenti che franano nel sentimentalismo e l’aggiunta d’una leziosa colonna sonora tra Armstrong-Fitzgerald e Georges Moustaki. Lelouch è il tipo di regista che fa pronunciare al protagonista frasi come “Entrare in una casa nuova è come entrare nel letto di una donna, fa sempre un po’ paura”, e non sai se faccia sul serio o sia solo una posa (più probabilmente, tutt’e due le cose). Poi però ne segui il ritmo svagato del racconto, il gioco d’attrici (quante, da Sandrine Bonnaire alla Irène Jacob musa di Kieślowski a Valérie Kaprisky), il modo in cui tratta l’amicizia virile (citando il western Un dollaro d’onore, del maestro delle amicizie maschili Howard Hawks).

I conflitti di Parliamo delle mie donne hanno una consistenza cartolinesca, ma meno cartolinesco vuole essere il finale, che nei modi estenuati e mitizzanti di Claude Lelouch ci ricorda, tramite l’alter ego Johnny Hallyday, che l’ombra della fine è sempre dietro l’angolo e che, come il regista già disse una volta, una vita non basta, né per viversi sino in fondo ogni cosa, né per correggere tutti gli errori commessi.