L’altro volto della speranza, per Aki Kaurismäki la moralità è una questione di stile

L'appartato regista finlandese racconta la storia d'un rifugiato siriano che chiede asilo a Helsinki. La burocrazia è sorda, ma c'è chi è disposto ad aiutarlo. Un dramma raccontato con stile stralunato e impassibile. Che, paradossalmente, rende ancora più incisiva la denuncia.

Recensione de L'altro volto della speranza di Aki Kaurismäki

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Dopo Miracolo a Le Havre, storia d’un lustrascarpe che aiuta un giovanissimo clandestino africano, Aki Kaurismäki torna a parlare di immigrazione ne L’altro volto della speranza, premio della regia all’ultimo festival di Berlino. Un certo Wikström (Sakari Kuosmanen), ex rappresentante d’abbigliamento che ha rilevato un ristorante, scopre nel retro del suo locale un profugo siriano, Khaled (Sherwan Haji), giunto in Finlandia dopo molte peripezie. E invece di denunciarlo, lo aiuta.

Il loro primo incontro è tutt’altro che pacifico, un vero e proprio match di pugilato. Ma alla fine il ristoratore offre a Khaled un lavoro, fornendogli anche dei documenti falsi. Lui aveva anche tentato di seguire la trafila legale: s’era costituito appena arrivato, certo di poter ottenere lo status di rifugiato, essendo scappato dall’inferno dei bombardamenti di Aleppo. Ma per l’ottusa burocrazia finlandese le condizioni di emergenza non sussistono, e la clandestinità diventa l’unica via percorribile. Khaled viene perseguitato da un gruppo di xenofobi ma si salva grazie a Wikström e agli improbabili dipendenti di quel bizzarro microcosmo che è il ristorante la Pinta d’Oro.

L’altro volto della speranza mostra quanto il tema immigrazione stia a cuore a Kaurismäki – il film inizialmente doveva intitolarsi “Il rifugiato”. A Berlino il regista aveva dichiarato: “Considero il maltrattamento dei migranti un crimine contro l’umanità”. Aggiungendo, con una tagliente considerazione sul suo paese, la Finlandia, che “quando sono arrivati 30mila giovani iracheni, i miei pacifici connazionali hanno reagito come se la Russia ci avesse nuovamente invaso come nel 1940”.

L’altro volto della speranza segue pedissequamente l’odissea di Khaled: all’inizio emerge ricoperto di fuliggine da un cumulo di carbone, e lo spettatore ne segue le peripezie attraverso la sorda burocrazia e i ripetuti scontri coi naziskin che l’hanno preso di mira. Eppure, nonostante la precisione dei dettagli, il film non punta mai sul realismo, né tantomeno assume il tono sdegnato d’un atto d’accusa alla Ken Loach.

L’altro volto della speranza ha lo stile laconico e imperscrutabile tipico del cinema di Aki Kaurismäki, nel quale personaggi impassibili interagiscono in un mondo surreale, privo di coordinate spaziotemporali riconoscibili (potrebbe essere ambientato in un’epoca qualunque, anche se le scenografie spoglie e desuete fanno pensare a un tempo rimasto congelato agli anni Sessanta).

Da questa messinscena depurata però – forse proprio in virtù della sua essenzialità – affiora netto il punto di vista morale del film, che invece di ricorrere a vibranti parole d’ordine emerge naturale dalla logica distaccata e paradossale d’un umorismo scorbutico e geometrico, alla Jacques Tati.

L’altro volto della speranza può lasciare comprensibilmente spiazzato lo spettatore che, dato l’argomento di “impegno civile”, vorrebbe potersi appigliare a un’enunciazione più calda, un’indignazione più esplicita. Ma questo è Kaurismäki, prendere o lasciare, pacato in superficie, inflessibile al fondo. E se il suo stile stralunato non cambia mai, è semplicemente perché non è disposto a negoziare sulle sue certezze morali. Il regista finlandese, in fondo, è rimasto uno dei pochi a credere che la moralità sia una questione di stile.