Perché Your Name merita di essere un cult giapponese e perché guardarlo a prescindere (recensione)

Your Name. porta una ventata di freschezza in un'animazione giapponese da poco riscoperta e apprezzata in Italia: la nostra recensione

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Una doverosa premessa prima di iniziare una recensione che, come già anticipo, sarà assolutamente entusiasta: Your Name. è un miracolo. Non tanto il fatto che il film, firmato in regia e sceneggiatura da Makoto Shinkai, esista, quanto piuttosto il fatto che qualcuno si sia preoccupato di tradurlo in italiano e di proporlo nei nostri cinema: quel qualcuno – Nexo Digital e Dynit, per la precisione -, ha capito che siamo finalmente entrati in un’era in cui l’animazione giapponese non significa più “i cartoni sul sei”.

Da qui in poi la lettura si fa spoilerosa: se non avete ancora visto il film, vi consiglio di non leggere oltre. Your Name. è la storia di Taki e Mitsuha, un ragazzo e una ragazza che, inspiegabilmente e in momenti assolutamente non programmati, si ritrovano l’uno nel corpo dell’altra, costretti a impersonare il loro “ospite” in una realtà del tutto estranea. La trama funziona nella sua semplicità per circa la prima metà del film, ma è subito dopo che emerge la sensibilità di Shinkai nell’inserire un colpo di scena inaspettato, che rende il film improvvisamente più cupo e drammatico. Mitsuha è infatti già morta, uccisa da un meteorite abbattutosi sul suo paese tre anni prima della realtà di Taki: per qualche motivo il ragazzo è in contatto con il passato, e per questo si sente in dovere di agire per prevenire la tragedia che ucciderà Mitsuha e gli abitanti di Itomori.

L’intreccio, con tutti i colpi di scena e gli svolgimenti del caso, viene gestito molto bene: finché funziona si spreme un certo tipo di storia, lo scambio di corpo, e appena il meccanismo comincia a diventare ripetitivo si mette lo spettatore di fronte ad un inaspettato capovolgimento degli eventi. Alcune cose vengono volutamente e sapientemente taciute, come ad esempio il motivo per cui Taki e Mitsuha si scambiano di corpo o cosa ha detto Mitsuha al padre per convincerlo ad evacuare Itomori, ma anche queste apparenti leggerezze rivelano in realtà un’estrema attenzione al dettaglio: rivelare questi “trucchi” sarebbe risultato superfluo, avrebbe fatto perdere di credibilità all’insieme e avrebbe appesantito la narrazione.

Shinkai sa dove insistere, sa come evitare di rendere banale non solo il finale, ma l’intera vicenda che ha portato all’ultimo secondo del film: una simile conclusione agrodolce, in cui i due si ritrovano anni dopo senza conoscersi ma consapevoli di significare qualcosa l’uno per l’altra, riesce nell’incredibile intento di rendere reale una storia dalla forte impronta fantastica.

Mi capita spesso, tra “cartoni animati giapponesi” e videogiochi, di trovare una storia così emozionante, profonda e bella da pensare che “se si trattasse di un film o una serie tv, sarebbe sulla bocca di tutti“. Mi è successo con Life Is Strange, mi è successo con Si Alza il Vento di Studio Ghibli, mi è successo con Your Name.: il film di Shinkai racconta una storia che rimane dentro, che funziona, che stupisce con un colpo di scena degno delle migliori produzioni di HBO, eppure è relativamente poco “famoso” solo perché si tratta di animazione giapponese. La scelta di Nexo Digital di triplicare gli appuntamenti con Your Name. al cinema mi fa solo piacere: c’è bisogno di svecchiarsi, di guardare alle produzioni del Sol Levante come ad appuntamenti fissi al cinema come succede con Oceania e Zootropolis, senza bollarli a priori come “roba da fanatici” o film di serie b.

Your Name. non ha nulla da invidiare alle storiche produzioni Ghibli come La Città Incantata, essendo solo rivolto ad un pubblico leggermente più maturo rispetto al capolavoro di Miyazaki. Il film di Makoto Shinkai, tirando le somme, dovrebbe già essere un cult per chi è appassionato di cinema giapponese, e per tutti i motivi elencati finora dovrebbe essere visto a prescindere da chiunque, giusto per espandere i propri orizzonti e aprirsi ad un genere che magari, per puro pregiudizio, si reputa estraneo al proprio gusto.