La classifica dei migliori film del 2015: le scelte di “Alta Fedeltà”

Conto alla rovescia: dal numero dieci al numero uno, i film dell’anno. Che non sono necessariamente i più belli, ma quelli che restano dentro. Imperfetti magari, ma vitali: che dànno energia, pongono domande, mettono a disagio, regalano una gioia sincera. Film rigorosamente ad Alta Fedeltà.

classifica dei migliori film del 2015

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Riflettere retrospettivamente sull’annata cinematografica appena trascorsa per la classifica dei migliori film del 2015 dà una grande sensazione di libertà. Perché quando si recensisce il singolo film bisogna analizzare contenuti e modalità espressive dell’opera appena vista, seguendo un processo che è sì frutto delle emozioni assaporate ma anche di ragionamenti di taglio più analitico. Quando invece ci si distende su di un territorio cinematografico vasto dodici mesi, ci si comporta come degli sbrigliati viaggiatori della memoria, preoccupandosi poco dell’equilibrio formale dei film presi a uno a uno, facendo affiorare in un più capriccioso processo di libere associazioni quelle pellicole, spezzoni, persino fotogrammi, che son stati capaci di innescare un’inquietudine, un sentimento, una riflessione, una gioia duratura.

Perciò alla fine restano quasi sempre non le opere formalmente ineccepibili ma i film che pongono interrogativi al cinema e allo spettatore. Film, è banale dirlo, che non lasciano indifferenti. Magari neanche “belli”, ma con dubbi, vuoti, suggestioni che continuano a lavorarti dentro. Imperfetti, forse, ma vitali. E più che mai, alla conclusione del 2015, con tutti noi reduci da una lunga stagione all’insegna di crisi, precarietà, insicurezza diffusa, c’è bisogno di vitalità, di opere che si facciano carico di un’energia espressiva, di una curiosità verso il mondo che si sceglie di raccontare, spingendo gli spettatori a nutrire questa stessa curiosità.

Per questo mancano all’appello del decalogo di fine anno film che, per il gusto di “Alta Fedeltà”, hanno svolto il proprio compito estetico in chiave accademica, opere immancabilmente d’autore, che però mi sono sembrate mancare proprio dell’indispensabile curiosità verso il mondo. Film d’arte, anche smaglianti e lavoratissimi sotto il profilo estetico, ma autisticamente ripiegati sull’inflessibilità della propria cura formale e la rigidità di un giudizio sulle cose e sugli uomini troppo lontano dalla realtà per riuscire a indagarla con occhio davvero appassionato.

Al contrario, sono certo ci sia bisogno di destinare sul mondo uno sguardo ricco di passione ed empatia, altrimenti non riusciremo a raccontarlo davvero. I film scelti quindi rispondono a questa esigenza, e son quelli che, una volta decantate le visioni attraverso un lungo anno, hanno lasciato, almeno su di me, una traccia, il segno di una passione e un’intelligenza che non si spegne, fornendo strumenti per rinnovare il proprio modo di guardare la realtà, le trasformazioni sociali, i sentimenti degli uomini. Ecco i film di Alta Fedeltà, dal decimo al primo.


10. La legge del mercato, di Stéphane Brizé

Il cinquantunenne Thierry, rimasto improvvisamente senza lavoro, è uno dei protagonisti del cinema di questa stagione, interpretato da un Vincent Lindon cui è stata giustamente assegnata la Palma d’oro come miglior attore. Un uomo normale in un film normale, che esempla l’asciuttezza del pedinamento dei protagonisti sul cinema dei fratelli Dardenne. Un individuo qualunque che, di fronte al dramma della mancanza di lavoro risponde con la forza di una scelta morale personale. La legge del mercato è un film senza impennate eroistiche, che descrive con pedanteria la via crucis solitaria di chi perde il lavoro oggi. Uomini a cui viene chiesto, per restare nel giro, di sorvegliare altri uomini e coglierli in fallo. Il contrario di ciò che un tempo, non senza qualche retorica, era la legge della solidarietà che segnava i rapporti tra lavoratori. E l’uomo solo Thierry, pur con moglie e figlio disabile a carico, deve trovare una risposta che non tradisca la voce della coscienza. Un film che persegue la via della semplicità per parlare di cose che dovrebbero essere semplici.

9. Giovani si diventa, di Noah Baumbach

Questa è una scelta inequivocabilmente di pancia, devo ammetterlo. Perché Noah Baumbach mette in scena un cineasta quarantenne, Ben Stiller, che si scontra con un giovane documentarista ventenne, Adam Driver. E quello che colpisce un quarantenne come me non è tanto il tentativo di Stiller di ritrovare la gioventù perduta, cui si può guardare con affettuosa simpatia. No, è lo smarrimento dell’intellettuale, cui è stato insegnato che il cinema è l’arte dell’approfondimento, davanti a un disinibito ragazzaccio 2.0 che si muove sulla superficie, accumulando con disinvoltura suggestioni disparate e componendo cosi, molto velocemente, un documentario di successo. Mentre Stiller si dibatte da anni, depresso e dubbioso, col montaggio del suo film di sei ore sulla miseria del capitalismo. Chi ha ragione? L’approccio serio e analitico della cultura al tempo delle ideologie era migliore di questo ipermoderno insieme di stili, citazioni, input disparati che i ventenni maneggiano e frullano così bene? E cosa può fare un uomo che, pur non essendo ancora vecchio, si sente di appartenere al passato, per sintonizzarsi sul ritmo della contemporaneità? Deve negare tutto ciò in cui crede, o cos’altro? Non si può non sentire uno smarrimento sincero di fronte all’urgenza di questa domanda, che non riguarda solo l’arte o il fare cinema.

8. Foxcatcher, di Bennett Miller

Un film che all’uscita non avevo recensito neanche troppo bene, lodandone la cura formale ma restando dubbioso circa l’eccessivo autocontrollo stilistico. E invece, sulla lunga durata, il film di Bennett Miller è uno di quelli che restano. Foxcatcher ci spinge a provare umana comprensione per uomini che dovremmo detestare: miliardari ossessionati dai propri sogni di potere, lottatori che mettono tutti al tappeto nella cornice delimitata e sicura della palestra, ma incapaci di affrontare la sfida senza regole scritte della vita reale. Un apologo fosco e malinconico sul sogno americano, sui sogni di gloria in generale. Miller però non cade mai nel tranello dello sguardo entomologico che riduce i personaggi a insetti su cui depositare un giudizio distante e spassionato. Gli esseri umani, anche i più sgradevoli e discutibili, ci assomigliano: e per questo vanno raccontati con rispetto e partecipazione.

7. Bella e Perduta, di Pietro Marcello

Pietro Marcello accetta la sfida della realtà. Che imprime un cambiamento al suo progetto: perché lui voleva raccontare con stile documentario la storia di Tommaso Cestrone, l’angelo di Carditello che ostinatamente voleva difendere dal degrado una reggia borbonica settecentesca. Ma Tommaso la notte di Natale muore. E da documentario, Bella e perduta diventa un immaginifico film di finzione, o meglio un inestricabile cortocircuito di verità e creazione drammaturgica, in cui restano le tracce e il volto di Tommaso, mescolati a una storia fiabesca e dolorosa di un bufalo e di un Pulcinella che cerca di salvare dalla morte l’animale indifeso. I due partono per un viaggio della speranza, incontrando persone ai margini e una realtà ai margini, sospesa tra la crudezza di paesaggi abbandonati e la leggerezza favolistica di un altro mondo possibile, dove accadono ancora miracoli, i bufali parlano con voce dolente e Pulcinella è un essere umano e concretissimo. Un cinema ricco di suggestioni, che guarda certamente a Bresson e Pasolini, trovando però alla fine uno stile personale fatto di poesia e realtà.

6. Non essere cattivo, di Claudio Caligari

È stato giustamente il film che l’Italia ha selezionato per la competizione degli Oscar, anche se è già stato eliminato. Naturalmente è stato un omaggio postumo, che si porta appresso non pochi ipocriti sensi di colpa verso Claudio Caligari, un regista a cui è stato dato, in vita, troppo poco spazio. Ma è anche lui a essersi sempre ostinato a raccontare storie di sbandati, con un’umiltà da artigiano, senza pose da artista maledetto che l’avrebbero aiutato tantissimo a trovare una parte riconoscibile da spendersi, e su cui lucrare, nella società dello spettacolo. Che cerca fenomeni, e non artisti. Caligari no: lui era incapace di lucrare anche sui suoi personaggi, marginali che non si trasformano mai in “casi umani”, ma restano persone raccontate come tali, coi loro enormi limiti. Caligari è stato il narratore di un’altra Italia: di perdenti e periferie, storie minute senza sogni e senza sbocchi. Ma sempre privo di compiacimenti. Mantenendo in equilibrio giusta distanza ed empatia. Con uno stile prettamente cinematografico, che soprattutto ne L’odore della notte (fondatore, ben prima di Romanzo criminale, del neonoir italiano) e in questo Non essere cattivo, col suo mescolamento di Pasolini e Scorsese, ha trovato una voce personalissima. Regalandoci due dei migliori attori giovani di oggi, Luca Marinelli e Alessandro Borghi.

5. In Jackson Heights, di Frederick Wiseman

La curiosità verso il mondo è l’essenza del cinema di Frederick Wiseman. Anche stavolta, l’ottantacinquenne, instancabile documentarista americano torna a raccontare un pezzo di mondo col suo stile interrogativo e senza pregiudizi. Una composizione, come spesso gli capita, distesa sulla lunga durata, essenziale per riuscire a rispettare l’universo con cui ci si confronta, per restituirlo in modo veritiero, lasciando parlare la polifonia della realtà nella sua integrità. E stavolta il mondo è Jackson Heights, quartiere melting pot di New York, con mille lingue e mille identità. Di cui Wiseman offre un ritratto fin esaltante: perché la vita è difficile, ma esistono comunità che riescono ancora a sentirsi tali, e così facendo affronta la sfida della complessa contemporaneità. Uno sguardo ottimista che non ci si aspetterebbe da un autore che nella sua lunga carriera ha raccontato con occhio spesso critico l’ottusità delle istituzioni (carceri, manicomi, ospedali, burocrazia). Ma che sa ancora sorprenderci e sorprendersi.

4. Taxi Teheran, di Jafar Panahi

L’Iran ha condannato Jafar Panahi per propaganda anti-islamica e gli impedisce quindi di occuparsi di cinema. Ma lui continua, imperterrito, anche se è costretto a fare film clandestini chiuso dentro a un appartamento o, come in questo caso, negli angusti confini di un taxi. Come si fa a costruire un universo drammaturgico dentro uno spazio così ristretto e povero di opportunità narrative?

Che domanda: con le persone. Da che mondo è mondo le storie sono fatte di esseri umani, e nient’altro. La cabina di un taxi diventa un microcosmo di vicende esemplari che, attraverso i personaggi che si accomodano sul sedile posteriore, raccontano l’Iran contemporaneo, l’assenza di democrazia, la miseria dei discorsi a senso unico delle dittature, la capacità del cinema di opporsi al silenzio obbligatorio. E a guidare il taxi è proprio Panahi: che pur narrando una storia di resistenza non assume mai toni magniloquenti e pose da perseguitato. Perché ci vuole ricordare la bellezza del cinema: e la bellezza richiede felicità e la capacità di sorridere. Una risata li seppellirà.

3. Mad Max: Fury road, di George Miller

Lo immaginavamo sulla via della pensione, e invece il settantenne George Miller dà a tutti una lezione di cinema. Immagina un futuro distopico segnato dalla penuria di cose e cibo, un mondo in cui gli uomini sono diventati antiquati, ingranaggi di una macchina totalitaria che ne dispone come di pezzi di ricambio. Una realtà così dovrebbe essere sopraffatta dal pessimismo. Invece Miller ci regala il film più energico e vitale dell’anno, con personaggi, una splendida Charlize Theron su tutti, accaniti e furibondi, che portano con sé, soprattutto l’altra metà del cielo, ancora la speranza di un futuro. Donne e uomini che non sono disposti a lasciar perdere, per quanto l’impresa sembri disperata. E Miller fa tutto questo con un cinema che rifiuta la pulizia anestetizzante del digitale, sbattendoci in faccia un mondo di polvere, deserto, carne e sangue. Di personaggi che sembrano solo rabbiosi, ma che portano con sé un insospettabile grumo di sentimenti ostinatamente umani.

2. Rabin, the last day, di Amos Gitai

Amos Gitai ricostruisce la sera del 4 novembre 1995 in cui il premier israeliano Yitzhak Rabin venne ucciso a Tel Aviv da un estremista religioso. Rabin aveva firmato pochi mesi prima gli accordi di Oslo con Arafat, aprendo una via alla pacificazione con i palestinesi. L’attentato chiuse quella stagione, imprimendo un cambiamento nella politica di Israele di cui si colgono i frutti amari ancora oggi. Quindi ripercorrere la dinamica e i retroscena della notte dell’attentato significa raccontare l’Israele contemporaneo.

Gitai trova uno stile severo, puntuale e affascinante, che mescola materiali di repertorio e ricostruzioni di finzione che si pongono interrogativi in ogni direzione, indagando le voci dei rabbini estremisti, dei coloni israeliani militanti, i lavori della commissione d’inchiesta che cercò di far luce sull’assassinio. Un film di straordinaria potenza narrativa, che guarda più al cinema italiano dei Petri e dei Rosi che al thriller d’inchiesta alla JFK. Cinema profondamente civile che invece di eccitare gli animi invita alla riflessione di una ricostruzione meticolosa, senza però nascondere il proprio punto di vista. Un film col ritmo di un lamento funebre, che non dà allo spettatore parole d’ordine a cui credere, chiedendogli invece pazienza, attenzione, giudizio. Il cinema più rivoluzionario che si possa immaginare.

1. Vizio di forma, di Paul Thomas Anderson

Il film dell’anno è firmato da uno dei più grandi autori contemporanei. Paul Thomas Anderson non si ripete mai, si rimette sempre in discussione, alla ricerca di uno stile che sappia interrogare il presente, partendo, come avviene qui, dal passato. Vizio di forma (Inherent vice) è ambientato nel 1970, tratto dal romanzo omonimo del meno cinematografico degli autori contemporanei, Thomas Pynchon, uno scrittore, e forse anche questo ha pesato nella scelta di Anderson, di cui non si conosce nemmeno l’identità.

Una storia magmatica scritta da un fantasma: e il risultato è un’opera fantasmatica, incistata nel tempo che fu e con un protagonista, Mickey, un detective che non sembra avere intenzione di fare il proprio mestiere, che guarda alla soglia del 1970 con occhio nostalgicamente rivolto all’indietro. E infatti è stranita e sbilenca l’interpretazione di Joaquin Phoenix, private eye molto sentimentale che non è solo legato alla sua ex che gli chiede di ritrovargli l’amante, ma anche a quell’epoca tardo-hippie ormai al tramonto. E tutto è malinconicamente al tramonto in questo film, che guarda con sospetto giudicante i tempi che stanno per venire, ai quali risponde con una strategica assenza di volontà, rifiutando di farne parte. La grandezza di Anderson sta anche nel costruire un film che ha le spezie tipiche del cinema postmoderno, la nostalgia, le citazioni, una fauna di protagonisti bizzarri, senza però fare un film di ironia e distacco postmodernista. Al contrario in Vizio di forma, nel quale pure si ride parecchio, la nota più intensa è quella di una sottile, sgomenta disperazione. Pure questo è un modo per far capire che il mondo sta ancora a cuore.