Mon roi: con Vincent Cassel l’amore è una fiamma che non smette mai di bruciare

Lo sguardo al femminile di Maïwenn racconta una storia d'amore senza uscita tra un irresistibile gaglioffo e una donna trascinata in una passione bruciante. Ma i nodi vengono presto al pettine. Una vicenda tra eccessi e squilibri, come si conviene a un vero melodramma. Imperfetto e sincero.

Mon roi melodramma con Vincent Cassel

INTERAZIONI: 52

Mon roi, dice la regista Maïwenn, prende il titolo da una canzone d’amore. Non è un caso: il legame tra melò e canzonette è stato definitivamente stabilito da François Truffaut, che in quel fondamentale melodramma contemporaneo che è La signora della porta accanto faceva dire queste parole alla protagonista: «Ascolto solo canzoni. Perché dicono la verità. Più sono stupide e più sono vere. […] Dicono “Non devi lasciarmi”, “Senza di te in me non c’è vita”, […] oppure “Senza amore non siamo niente”».

Insomma, solo canzoni e melodrammi sanno raccontare le sofferenze dell’amore in forma immediata e autentica. Nel film di Truffaut c’era un personaggio, la signora Jouve, invalida dopo un tentativo di suicidio per una delusione sentimentale. Così Mon roi inizia con Tony (Emmanuelle Bercot, premiata a Cannes come migliore attrice) che si rompe un ginocchio sciando: e il periodo al centro di riabilitazione diventa l’occasione, con parallelismo piuttosto didascalico tra mali del corpo e dell’anima, per rimettere insieme i pezzi della fallimentare storia con Georgio (Vincent Cassel).

Mon roi narra d’una passione bruciante, felicissima dall’innamoramento al matrimonio e funesta dal momento in cui Tony aspetta un bambino. Ma la temperatura resta sempre altissima, come si conviene a un melò e a un protagonista maschile narciso e gaglioffo, bugiardo impenitente, dissipatore di soldi e sentimenti. Un personaggio che in un film italiano sarebbe stato interpretato da Vittorio Gassman o, meglio, da Walter Chiari. Ma è inutile immaginare parallelismi col nostro cinema, che il melodramma è riuscito a pensarlo quasi solo in chiave patetica (infatti l’ottimo studio sull’argomento di Emiliano Morreale s’intitola Così piangevano), mentre i francesi, che l’amour fou l’hanno inventato, sanno instillargli una nota d’insopprimibile energia, d’una fiamma che s’accende e, inevitabilmente, brucia.

Questa è anche la ragione per cui il melodramma resta in bilico tra verosimiglianza e inverosimiglianza, perché radiografa uno spazio emotivo sempre sul crinale dell’eccesso. Ed eccessi e squilibri in Mon roi non mancano: la durata, probabilmente dilatata per intensificare la sensazione di estenuazione e fallimento (la stessa scelta de La vita di Adele di Kechiche); certi dialoghi pretestuosi (l’ortopedico che psicanalizza Tony chiedendole perché si sia voluta far male); il tratteggio opaco dei personaggi secondari (un grigio Louis Garrel nella parte del fratello di lei), che restano fondale d’una vicenda irrimediabilmente a due. La stessa Tony non trova mai un’armonia: donna adulta e avvocato di successo, eppure in balia dei propri impulsi, tra rabbiose scenate di gelosia e tentativi di farla finita, sempre rapita dal fascino d’un uomo costitutivamente inaffidabile.

Eppure, nonostante gli sbilanciamenti, Mon roi coglie nel segno, con uno sguardo al femminile che non emette facili sentenze contro gli uomini. Basterebbe a dimostrarlo il finale – non lo sveliamo – che è il vero colpo d’ala del film, nel quale per la prima volta Georgio dismette il suo cronico narcisismo, lasciando agli spettatori l’occasione per capire come mai in certi amori, anche quando sono finiti, il fuoco continua ad ardere sotto la cenere.
https://youtu.be/me8h7ypE1Ew