La legge del mercato: la vita può ricominciare a cinquant’anni?

Vincent Lindon, Palma d’oro a Cannes, è un uomo di mezza età che perde l’impiego e deve ripartire da zero. Un film sincero e onesto sulla solitudine del lavoratore contemporaneo. Che non ha più partiti o sindacati che lo rappresentano. E allora resta solo la dignità e la voce della coscienza.

La legge del mercato con Vincent Lindon

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Scattano immediati adesione e disagio dello spettatore davanti a La legge del mercato di Stéphane Brizé, col quale Vincent Lindon, commovente nella sua asciutta dignità, ha vinto la Palma d’oro come miglior attore a Cannes (doppiato benissimo da Francesco Pannofino). Scattano perché il film parla della tragedia contemporanea dell’uomo occidentale, la crisi economica: che mette in ginocchio uomini come il cinquantunenne Thierry, improvvisamente senza lavoro, sposato con un figlio disabile, costretto a rimettersi in discussione alla sua età.

Il film è didascalico nel modo in cui insegue Thierry (un pedinamento con camera a mano debitore dello stile austero dei fratelli Dardenne) attraverso le sue vicissitudini: l’agenzia interinale che gli ha fatto seguire inutili corsi d’aggiornamento, la consulente fiscale che con anonima gentilezza gli suggerisce di vendere la casa e fare una polizza sulla vita perché se poi lui muore alla famiglia che succede?, l’evasivo colloquio di lavoro su Skype all’insegna di flessibilità e diminuzione di stipendio.

Thierry trova un impiego come addetto alla sicurezza d’un grande magazzino: davanti a lui passano piccoli ladri per necessità, l’anziano che sottrae della carne, cassiere che rubacchiano buoni punti e vengono sottoposte a penosi interrogatori da parte dell’azienda che, per diminuire i costi, ha interesse a licenziare. Per questo una ex dipendente si suicida e allora il responsabile delle risorse umane catechizza i suoi colleghi dicendo che è impossibile conoscere le ragioni delle scelte di una persona e dunque nessuno deve ritenersi responsabile.

È chiaro che La legge del mercato esprime una posizione precisa, aderendo al punto di vista di Thierry. Ma non è un film rigidamente militante e cerca anzi uno stile oggettivo ed esemplare, seguendo con discrezione il protagonista nella sua via crucis, senza impennate melodrammatiche, mostrando i fatti e non facendo intuire nulla dei rovelli interiori. Anche la presenza del figlio disabile resta un elemento discreto e non ricattatorio: semplicemente, le sue ambizioni di bravo studente che vuole andare al Politecnico costituiscono un altro fattore che obbliga Thierry a cercare soluzione alle difficoltà finanziarie.

Per questo lascia sorpresi il finale improvviso, in cui il protagonista fa una scelta morale che non sgorga da una presa di posizione ideologica, ma da un istintivo senso di giustizia e di disagio mai verbalizzato. La legge del mercato è in tal senso davvero una storia dei nostri tempi: perché mostra un mondo del lavoro scompaginato, nel quale le tradizionali organizzazioni di rappresentanza, partiti, sindacati, non hanno più incidenza, e i lavoratori pensano a se stessi in termini prettamente personalistici (Thierry rifiuta di partecipare a una class action contro l’azienda che l’ha licenziato).

Il suo dignitoso gesto finale la critica di sinistra di un tempo l’avrebbe bollato come regressivo, perché all’insegna di un individualismo velleitario, non legato a una coscienza di classe organizzata. Ma è precisamente questo che racconta La legge del mercato, una disintermediazione sociale nella quale un “uomo semplice” (A simple man è il titolo inglese del film) resta solo di fronte alla propria vita e alla propria coscienza.
https://youtu.be/TJSEOCkTEbA