Forza maggiore: una valanga che travolge convenzioni e regole sociali

Il film di Ruben Östlund è un’acuta riflessione sulla natura umana. Quando, di fronte al pericolo, le norme del vivere civile si frantumano ed emergono istinti inconfessabili. Un piccolo trattato di etologia apparentemente freddo e distaccato, ma ricco di un’ironia che guarda a Buñuel.

Forza maggiore la valanga di Ruben Östlund

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Una famiglia svedese – Tomas (Johannes Bah Kuhnke), la moglie Ebba (Lisa Loven Kongsli) e i due figli – sono in vacanza sulle Alpi francesi. Dalla terrazza con meravigliosa vista sulle montagne stanno godendo la vista spettacolare della valanga controllata innescata dai cannoni sparaneve: ma l’enorme massa incombe sui villeggianti e sembra volerli sommergere. Preso dal panico Tomas fugge, dimenticando la famiglia, mentre la moglie cerca di proteggere i bambini. È solo un falso allarme, nessuno si fa male, ma l’atteggiamento del marito è una scoperta che sconvolge la coppia.

In Forza maggiore di Ruben Östlund, la settimana bianca si trasforma in una riflessione comportamentista sul modo di essere degli uomini e la relatività delle regole sociali. Il film inizia con un’immagine dall’alto del minuscolo paesello immerso nel maestoso paesaggio alpestre e continua con inquadrature in campo lungo tra scenari innevati e dentro l’hotel in cui annegano i personaggi, figure piccole e lontane, che il regista osserva con uno sguardo oggettivo, quasi “entomologico”, come avrebbero detto i critici di una volta.

Uno sguardo che analizza le angosce umane con la freddezza lucida della distanza, da etologo alle prese con una specie animale. Nel momento in cui i pericoli della natura riprendono il sopravvento, la ragione e le norme civili mostrano il loro volto fasullo. Riaffiorano istinti che accomunano l’uomo alle bestie, cancellando le regole che impongono alla figura maschile un coraggio puramente di facciata.

Già nei precedenti Involuntary e Play – sul bullismo di un gruppo di ragazzi di colore che gli adulti non fermano temendo di sembrare razzisti – Östlund aveva riflettuto su convenzionalità e paradossi dei paradigmi sociali. Il regista ama costruire delle situazioni estreme nelle quali le leggi del vivere civile entrano inevitabilmente in crisi e si è costretti a misurarsi con la loro artificialità.

Un approccio evidentissimo in Forza maggiore nel quale, sebbene non accada nulla di cruento, personaggi e spettatori sono sottoposti a un’insostenibile sensazione di minaccia perenne, ottenuta con un linguaggio minimale, senza effettismi. È come se ogni cosa – la colonna sonora di Vivaldi, il drone del bambino che irrompe nel mezzo di una discussione, il bianco accecante della neve nella quale la famiglia si perde per un istante, il fragore dei cannoni sparaneve in azione giorno e notte – rompesse la tranquillità del quotidiano, costruzione fasulla sotto cui si agita una realtà fatta di concretissime paure fisiche, angosce emotive e istinti compressi.

Il senso di minaccia si estende sino al finale – che non sveleremo –, che chiarisce come la principale fonte d’ispirazione di Forza maggiore, esplicitamente citata, sia Il fascino discreto della borghesia di Buñuel, straordinario trattato di antropologia delle convenzioni da cui il regista svedese eredita, pur nella profonda diversità di tono, il gusto della vita come estremo paradosso, cui guardare allo stesso tempo con lucidità e senso dell’ironia. Che poi, sia detto en passant, è la ragione per cui è improprio indicare il nome dell’inflessibile Haneke come principale punto di riferimento del linguaggio cinematografico di Östlund.